La critica Semplifica un po’, però spiega bene l’origine dei nostri mali

Il primo film interessante giunge nel secondo giorno del Festival di Roma, con La banda Baader Meinhof di Uli Edel (uscirà venerdì prossimo), regista di Christiane F. Nell’evocare la guerriglia urbana della Rote Armee Fraktion, il film di Edel giunge dopo parecchi altri: il migliore resta Il silenzio dopo lo sparo di Volker Schlondorff, anche perché mostra le connessioni del gruppo con vari servizi segreti (ne fa cenno anche Munich di Spielberg). Edel invece glissa: non mostra nemmeno il santuario» di Berlino Est. Lo stile della ricostruzione, di oltre due ore e mezzo, è chiaro ed essenziale, da tv di alta gamma, con le semplificazioni specie di linguaggio: pochi ormai capirebbero il lessico di quel comunismo venato d’anarchismo. Ma tutti possono notare, specie all’inizio, che quell’epoca germinavano i mali della nostra. Se nel 1967 Ernesto Guevara non fosse stato ucciso e se Régis Debray non fosse stato arrestato; se Rudi Dutschke non fosse stato gravemente menomato nell’attentato dell’aprile 1968, la sinistra rivoluzionaria europea non sarebbe finita nell’utopismo.

E Baader (Moritz Bleibtreu) e l’amata Gudrun Ensslin (Johanna Vokalek) non sarebbero finiti uccisi (o, un anno dopo Ulrike Meinhof, suicidi, come sostiene Edel a partire dal libro di Stefan Aust) in prigione nel 1977; oppure viventi, ma sempre in prigione, come Sofri.

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