Il critico Una narrativa in ottima salute che non vive «di rendita» ma di lavoro

Per scoprire se davvero i napoletani sono espansivi e musicali, i romani cinici e indolenti e gli abitanti del Nordest una manica di piccoli imprenditori arricchiti, incolti e xenofobi bisognerebbe ignorare il comandamento di Auden («Tu non siederai con gli statistici, né commetterai una scienza sociale!»); e contattata la più vicina Università, aprire il libretto degli assegni e commissionarle una ricerca.
Intanto, accontentiamoci di confessare che eravamo al corrente delle voci calunniose su veneti e friulani; inoltre sapevamo che la letteratura del Nordest gode di ottima salute. Le due cose non sono in contrasto: uno dei miti più difficili da estirpare è che tra classe dirigente, economia e società debba esservi un rapporto armonico, o almeno una lenta attenuazione dell’intelligenza che conduca senza strappi dall’accademico al peracottaro; perché la società, come la natura, non facit saltus. E invece, guarda un po’: l’Atene di Pericle era un covo di affaristi, nell’Inghilterra di Chaucer i mariti bastonavano le mogli, il re di Molière si lavò due volte in tutta la sua vita e meglio non ricordare troppo spesso quel che accadeva a Firenze dietro la bottega del Pollaiolo. Per il Nordest è lo stesso: l’amore per gli schei potrebbe testimoniare che l’Europa è vicina (mai letta La bella di Lodi di Arbasino?), o coincidere con la consapevolezza che la libertà dei moderni, come sosteneva Benjamin Constant, passa per il lavoro, non per la rendita. A pensar male, poi, la lunghezza delle code per recarsi ad ascoltare Paolo Giordano misura il tasso di globalizzazione raggiunto dal territorio, non la solidità culturale della regione. È, avrebbe detto Don Milani, un’aggravante. Il guaio è che siamo tutti nipotini di Galileo, e continuiamo a servirci del pallottoliere (quanti libri si leggono in Italia? Quanti biglietti staccati durante i festival?) mentre basterebbe uno straccio di analisi qualitativa per accorgersi che talvolta c’è più cultura, cioè meno anonimato, in un qualsiasi piccolo sballo del sabato sera che in tante séances de l’Académie. Come spiegarlo in Italia, dove torme di giornalisti, per dimostrare che il desiderio di uscire la sera è l’anticamera del pronto soccorso, mai fanno mancare al popolo qualche lamiera contorta, qualche schizzo di sangue sulla carreggiata? Del resto, da gente che elegge «libro dell’anno» l’ennesimo Harry Potter c’era da aspettarselo.
Ora, capovolgere tutto e affermare che la fioritura letteraria del Nordest non è significativa sarebbe una sciocchezza bella e buona. Solo, bisogna precisare di volta in volta di quale libro si parli, e vagliare la rilevanza delle questioni in campo e la qualità delle discussioni che hanno generato. E farlo con la consapevolezza che in ogni caso sarà difficile dimostrare che tra i sali minerali disciolti nell’acqua di Pordenone e le meditabonde riflessioni dei giudici internazionali di Avoledo vi sia un rapporto di causa ed effetto. Perché in letteratura tutto è possibile, persino che il cittadino di Recanati sia più cosmopolita del parigino; ma soprattutto perché oggi vige l’universale extraterritorialità delle menti.


Alla letteratura del Nordest manca l’acuto? L’acuto c’è già stato, si chiama Fútbol bailado e porta la firma dello stesso Alberto Garlini. Ma se il sorprendente Fútbol bailado non ha venduto un milione di copie, mentre il banale La solitudine dei numeri primi sì, non dipende certo da quale terra si abbia sotto i piedi.

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