La crocerossina che sceglieva quali bimbi salvare e quali no

Intervista alla donna che folgorò gli inglesi e fece nascere il Live Aid per aiutare l’Africa

Paolo Giordano

Lei se ne stava lì e diceva soltanto: «Questo sì, questo no». Soltanto. Senza prevedere di essere la scintilla che avrebbe riacceso una luce sull’Africa. Nell’estate 1984 Claire Bertschinger, infermiera diafana e inarrestabile, pettinata con un ciuffo alla Lady D, era a Macallè, nel Nord dell’Etiopia mutilata dalle raffiche di odio tra il governo marxista e i ribelli in fuga per tutto il Tigray bollente. Una carestia mai vista, la savana spaccata da crepacci assetati. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa aveva stabilito che lei, proprio lei, fosse il sacerdote di quello che oggi, parlando dal suo paesino nell’Essex, definisce «un rituale nazista in un campo di sterminio»: decidere quali bambini salvare e quali lasciar morire, inesorabilmente distrutti da fame e malattie, prosciugati dalle bocche dei parassiti, con gli occhi terrei e spalancati. «Non avevamo viveri a sufficienza da sprecare con i casi disperati, non potevamo proprio... Nutrire un bambino senza speranza significava una doppia morte: la sua e quella di un altro cui non potevamo dar da mangiare». Insomma, il bambino più bisognoso, magari in punto di morte, è quello che non conviene curare, i viveri e le medicine vanno a quello che sta meglio. Per mesi, a Macallè, Claire è la sacerdotessa della vita e della morte e la cronaca di quei giorni ora è nel libro Volevo salvarli tutti (Sperling & Kupfer, pagg. 310, 17 euro).
«La fiumana di profughi era inarrestabile e silenziosa. Ogni giorno arrivavano un migliaio di bambini, noi potevamo mantenerne non più di sessanta, settanta. Molti erano ciechi per mancanza di vitamina A, quasi tutti avevano la testa rasata con un solo ciuffetto di capelli: così, secondo le credenze locali, dio avrebbe potuto afferrarli e portarseli in paradiso. Io li visitavo semplicemente. Dopo un po’ ero così esperta che mi bastava toccar loro un braccio per capir quanto erano malnutriti. Allora decidevo: questo sì, questo no, questo sì, questo no...». Tutte le mattine il suono dei corni, che lì da millenni annuncia la morte, era così ossessivo da svegliarla nella sua stanzetta al Castle Hotel ma non così forte da arrivare fin qui, fin da noi nell’Occidente appena battezzato dallo yuppismo, ansioso di lussi e impermeabile alla tentazione di guardare fuori. «I nostri magazzini erano vuoti, ci avevano promesso viveri supplementari e un’altra stazione di sostegno ma niente, era tutto fermo».
Quando Michael Buerk della Bbc arriva a Macallè, in un pomeriggio di caldo spaventoso, si trova davanti la solita scena: Claire pedinata, poi circondata, poi sommersa da bambini disperati e malnutriti. L’operatore Mo Amin filma tutto, filma la sacerdotessa durante il suo rituale orrendo o salvifico, e il servizio va in onda in Gran Bretagna. «Da mia mamma ricevetti un telex: “Tutti hanno visto la tv, il telefono non ha mai smesso di squillare”». Dieci giorni dopo un aereo della Raf atterrò nella polvere con la stiva piena di cibo e medicine. «Ho pensato: siamo salvi».
Anche Bob Geldof, che allora era più che altro il cantante capellone e diseredato dei Boomtown Rats, aveva visto la tivù e di fronte a quello scempio si mise a piangere. Meno di un anno dopo il suo Live Aid, il concertone che per uno scopo utile radunò quasi tutte le più inutili rockstar del momento, alzò il volume sull’Africa, trasformò i problemi della fame nel mondo in un ritornello che si canta ancora oggi, spesso steccando ma non importa: prima c’era solo silenzio. «Oggi ci sono meno persone affamate grazie a quel concerto? Sì, ci sono» ha detto Geldof l’altro giorno, parlando del Live 8, altro megaconcerto che nel 2005 celebrò i vent’anni del Live Aid.
E allora Claire Bertschinger, che la malaria scacciò dall’Etiopia e la passione da crocerossina portò poi in giro per il mondo, dal Togo all’Afghanistan, è la scintilla dell’Africa, è il tedoforo che, per una perfida miscela di casualità e impegno, ha iniziato a portare quella fiaccola che oggi è nelle mani di Bono, di Bill Gates e di tutte le organizzazioni non governative che da allora macinano fatica per raccogliere qualche risultato in tutti i Macallè del mondo. «Io non sapevo di aver ispirato Bob Geldof, me lo ha detto lui l’anno scorso».
Quando se ne andò dal Castle Hotel, «mamma Claire» come la chiamavano i bambini, rimase qualche mese a letto, malata. «Di fronte alle immagini in tv da Wembley, mentre suonavano le band del Live Aid, iniziai a piangere: non potevo sopportarlo. Sentii un dolore terribile e svenni al ricordo di quello che avevo visto laggiù. Io pensavo di aver fatto un pessimo lavoro. Mi ero dimenticata di tutte le persone che avevo aiutato, ricordavo solo i morti». Era, dice oggi, «stress postraumatico, una parola che noi crocerossine non potevamo neanche pronunciare». Lo ha fatto poi dall’analista, lo ha fatto abbracciando la religione buddhista. E scrivendo il libro che arriva in questi giorni, Claire ha finalmente finito il cammino verso la sua guarigione.
«In Etiopia ho tenuto un diario e spedivo sempre tante lettere a casa. Me ne ero dimenticata, ho voluto dimenticarle.

Ma mio padre ha conservato tutto in una scatola e un giorno è venuto da me e me l’ha consegnata: ho capito che era il momento di dimostrare che, con un piccolo sforzo di ciascuno di noi, si può fare davvero il miracolo di salvarli tutti».

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