Nessun criminale merita il "fine pena mai"

Capisco bene che un simile crimine produca reazioni fortemente emotive e che sia naturale provare orrore e sconcerto davanti ad un fatto di cronaca che contraddice la nostra idea, o il nostro stereotipo, di donna e madre-angelo, protettrice dei figli, accudente, dolce, attenta

Nessun criminale merita il "fine pena mai"
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Gentile Direttore Feltri,

Alessia Pifferi, la mamma trentottenne che ha fatto morire la figlia Diana di 18 mesi di fame e di sete lasciandola chiusa in casa da sola per diversi giorni, è stata condannata all'ergastolo. So che si tratta della pena massima, ma a me sembra comunque poca roba. In certi casi forse sarebbe giusta la

pena di morte, oppure tumulare in cella l'assassino e gettare via la chiave. Provo disgusto e rabbia verso questa donna, che ora spero marcisca in galera fino alla fine dei suoi inutili giorni e che patisca quello che ha patito la piccola Diana.

Paola Ventura

Cara Paola,

capisco bene che un simile crimine produca reazioni fortemente emotive e che sia naturale provare orrore e sconcerto davanti ad un fatto di cronaca che contraddice la nostra idea, o il nostro stereotipo, di donna e madre-angelo, protettrice dei figli, accudente, dolce, attenta. Ci risulta imperdonabile e contro natura che una mamma faccia del male alla creatura che ha messo al mondo, che tolga la vita a colui o a colei a cui pur l'ha data. Io stesso sono rimasto lungamente sconvolto dalla storia di Diana e per mesi il pensiero di questa bimba, sola in casa, abbandonata per giorni, affamata, assetata, piena di paura, anzi terrorizzata, mi ha perseguitato. Tuttora, allorché ci rifletto su, sento una morsa allo stomaco. E mi manca il respiro.

Tuttavia non posso condividere i toni e la durezza da te usati, quando si parla di detenuti, soggetti che talvolta hanno commesso delitti atroci ma che non per questo devono essere considerati scarti della società, individui da buttare via, da eliminare, contro i quali adoperare la medesima cattiveria che rimproveriamo loro.

Sono assolutamente contrario alla pena di morte, cosa che dichiaro da sempre. E concepisco la pena così come viene prevista e descritta dalla nostra Costituzione, ossia come occasione e mezzo per riabilitarsi in funzione di un reinserimento sociale, il quale quindi deve avvenire prima o dopo e non può

non verificarsi. In quest'ottica non posso fare a meno di rifiutare anche la condanna al carcere a vita. Al reo deve essere lasciata la speranza di potere uscire dall'istituto di pena. Ecco allora che egli riesce a scorgere e a trovare uno scopo che lo spinga sulla strada della edificazione di un nuovo sé, migliore, evoluto, più maturo, cosciente dei suoi sbagli, desideroso di riscattarsi.

A proposito di Alessia Pifferi - lungi da me l'intento di giustificarla -, ritengo che ella non sia che una stupida. In lei noto più mancanza di intelligenza che crudeltà. E si sa che gli idioti sono talvolta molto pericolosi, nessun dubbio. L'ergastolo? Quantunque ella si sia macchiata del peggiore reato di cui possa macchiarsi un essere umano, ossia l'ammazzare il proprio figlio, reputo che il «fine pena mai» sia, anche in tal caso, ingiusto. E ricorro ad un aggettivo forte, me ne rendo conto.

La signora Pifferi deve potere credere che esiste un domani, anche se lontano, in cui potrà lasciare la cella, una volta saldato un debito con la giustizia e con la società intera, e lo so che tale debito ci pare inestinguibile, eppure la chance di essere un cittadino e una persona migliore non può e non deve essere negata a nessuno.

Siamo abituati a pensare al carcere come ad un luogo in cui la gente debba marcire e soffrire. Tu stessa, cara Paola, utilizzi questo verbo: «marcire», appunto. Ma io voglio pensare alle prigioni anche come a

luoghi di speranza. O almeno è questo quello che dovrebbero essere.

Sapevi, ad esempio, che nelle case di reclusione si studia? Non sono pochi i detenuti che si iscrivono a corsi di laurea, che si formano, che ambiscono a conseguire un titolo di studio, competenze, istruzione. Il loro numero aumenta di anno in anno. Lo studio è uno strumento di riscatto. Ed è la consapevolezza che un giorno le porte del carcere si spalancheranno a incentivare nel condannato la brama di impegnarsi, ad incoraggiarlo nel suo proposito rieducativo.

Il carcere di Bollate ha 62 detenuti iscritti all'università, quello di Opera 50, tanto per citarne due. E persino sei condannati al carcere duro, il cosiddetto regime del 41 bis, sono diventati brillanti studenti universitari. Gli indirizzi prediletti: Filosofia, Scienze politiche, Scienze giuridiche, ossia giurisprudenza.

E si danno da fare. Eccome.

Quando neghiamo ai detenuti la speranza di riscatto, priviamo la società della possibilità di recuperare risorse umane preziose. Tutti possiamo fallire, cadere, errare. Restiamone consapevoli.

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