Dai Balcani al Maghreb, passando per il Medio Oriente, il Mediterraneo è stato rotta di civiltà, teatro di conflitti geopolitici, epicentro di scontri. Alberto Negri, storico corrispondente de Il Sole 24 Ore e oggi firma de il Manifesto, ha vissuto tutti i principali scenari di crisi della regione in oltre trent'anni di carriera. E ne ha dato conto nel suo ultimo saggio, Bazar Mediterraneo, edito per i tipi di Gog.
Il prossimo 26 settembre, presso la Fondazione delle Stelline a Milano, Negri sarà uno dei relatori alla conferenza "Raccontare la guerra oggi" organizzata da ilGiornale.it e InsideOver con il patrocinio di Fondazione delle Stelline. Insieme a Negri racconteranno le loro esperienze sul campo anche Fausto Biloslavo, Giovanna Botteri, Marcello Foa e Lucia Goracci, moderati da Fulvio Scaglione.
Con Negri dialoghiamo riguardo alla sua esperienza da inviato, soprattutto in Medio Oriente, e al ruolo dell'Occidente nel destrutturare una parte di mondo sconvolta da conflitti, guerre, terrorismo.
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Dottor Negri, lei ha visto tanti teatri di guerra e conosciuto diversi scenari di crisi. Quali sono quelli in cui è stato maggiormente coinvolto e l’hanno formata maggiormente?
“Difficile fare una scelta. In decenni di lavoro mi sono trovato in diversi scenari traumatici in ogni angolo del mondo. Ognuno di essi mi ha segnato emotivamente, umanamente, professionalmente. Ricordo quando viaggiai nella Turchia che aveva subito il colpo di Stato militare nel 1980, a Istanbul: viaggiando in pullman vidi un uomo impiccato a un palo della luce a bordo strada, è un’immagine che non dimenticherò mai. Ma fu anche molto segnante per me il momento in cui, nel 2001, in Afghanistan fu uccisa Maria Grazia Cutuli assieme al mio amico Julio Fuentes. Eravamo stati assieme nei giorni precedenti, quel giorno io ero rimasto a Kabul, mentre loro furono uccisi al passo di Sarobi. Sono episodi che mi hanno segnato come l’omicidio di Ilaria Alpi in Somalia o il sequestro di Giuliana Sgrena in Iraq. Mi porto dietro questi eventi che hanno avuto un impatto personale molto forte”.
Molti di questi momenti sono raccontati nel suo ultimo libro, Bazar Mediterraneo. Il “Grande Mare” come teatro di crisi decisive per l’ordine internazionale. Molto toccante, in particolare, il ricordo dell’Algeria fresca di golpe…
“Sì, era il 1991 e c’era appena stato il golpe militare contro il Fronte Islamico di Salvezza. Era iniziata una guerra civile che avrebbe fatto centinaia di migliaia di morti. Ricordo che nel 1991 passai un mese ad Algeri, in un clima tesissimo dominato dalla presenza delle forze di sicurezza e del rischio attentati, in completa solitudine. Non ti potevi confrontare con nessuno, tutto quello che accadeva era vissuto in un silenzio assordante che ti metteva al confronto con la tua anima e i tuoi pensieri in tutti i momenti della giornata in una situazione di pericolo continuo e allerta massima per agguati, attentati, sparatorie. Ricordo che la solitudine la faceva da padrone. Una solitudine che rendeva più pesante affrontare il presente”.
Come Occidente non capimmo quelle crisi e tante che hanno segnato il Mediterraneo e il Grande Medio Oriente. Cosa rende la regione così densa di sfide e strategica?
“Innanzitutto, il fatto che i Paesi del Mediterraneo sono i nostri fratelli, i nostri vicini di casa. Sono più simili a noi i popoli che attorniano il Mediterraneo che quelli dell’Europa del Nord, rispetto a cui condividiamo più tradizioni, modi di fare e percorsi storici. Un mondo più vicino anche geograficamente: per fare un esempio, tra la Sicilia e la Tunisia la distanza è di poco più di un centinaio di chilometri. Non siamo stati abili a veicolare questa vicinanza ai popoli del Mediterraneo, soprattutto a livello di singoli Paesi europei e Unione Europea, che faticano a pensare in termini mediterranei. E questo è grave anche oggi che il Mediterraneo, per la tragedia migratoria, è diventato anche un mare di morte. Tutto questo per il rifiuto di capire un fenomeno che non è un’emergenza, ma un processo strutturale che appartiene alla storia dell’umanità. E nel frattempo, pensiamo solo alla Libia, abbiamo agito per destrutturare sul fronte geopolitico quest’area di mondo, sostenendo anche autocrati come il generale al-Sisi in Egitto”.
Il rapporto con al-Sisi è un caso classico di cattiva coscienza occidentale?
“Sì, ma sarebbe riduttivo ridurre ai rapporti con l’autocrate egiziano la cattiva coscienza occidentale. Interventi militari come quelli di Iraq e Libia hanno fatto ancora peggio, portando alla distruzione di interi Stati, interi contesti sociali, in sostanza di interi popoli. Questo è il peggior esempio di cattiva coscienza. Oggi – cosa giustissima! – ci si richiama alla violazione del diritto internazionale da parte della Russia in Ucraina. Ma ci si dimentica di quanto fatto nel 2003 in Iraq, quando occupammo un Paese sovrano, e nel 2011 in Libia, abbandonando i popoli in questione a guerra, povertà, terrorismo. I primi violatori del diritto internazionale siamo noi. E non parliamo di casi come quello del conflitto israelo-palestinese”.
Ritiene che anche in Terrasanta si assista a violazioni del diritto internazionale?
“Assolutamente si, e aggiungo: avvengono quotidianamente. I palestinesi morti per mano delle forze armate israeliane da inizio anno sono 110. Oggi condanniamo – ribadisco: giustamente – l’occupazione illegale di territori ucraini da parte della Russia. Ma non ricordo una sanzione imposta a Israele per l’occupazione dei territori arabi”.
In quest’ottica, in Medio Oriente si sta provando a fare meno dell’Occidente. Pensiamo allo storico accordo Arabia Saudita-Iran. Stiamo assistendo al contrappasso di questa cattiva coscienza?
“La guerra in Ucraina ha messo in rilievo un processo in atto da decenni. E cioè fatto emergere l’esistenza di un’ampia fascia di Paesi che non lesina a prendere posizioni divergenti o addirittura discordanti con quelle del blocco atlantico a guida Usa. Non vogliamo parlare della Cina? Pensiamo all’India! I Paesi del Medio Oriente si muovono su questo solco. L’accordo Riad-Teheran non vive in solitudine, c’è dell’altro: ad esempio, Bashar al-Assad riammesso alla Lega Araba dopo oltre un decennio al recente summit in Arabia Saudita.
Vale anche per l’atteggiamento alla Russia?
“Non c’è un Paese in Medio Oriente che abbia imposto una sanzione. E dire che gli Usa consideravano alleati fidatissimi questi Paesi. L’Egitto, ad esempio, riceve 1,3-1,4 miliardi di dollari di aiuti militari dagli Usa, ma non ha messo una sola sanzione, seguendo l’Arabia Saudita nel riavvicinarsi all’Iran. Tutto questo dovrebbe far riflettere gli europei, che però seguono la linea Nato, che fa gli interessi degli Usa e non dell’Europa”.
Lo ha detto anche l’ambasciatore Romano, certamente non un nemico mortale della Nato, in una recente intervista a “L’Unità”…
“Esatto. Con Sergio Romano ho condiviso conferenze e convegni, tanti confronti e lo ritengo una persona di lucida e completa visione. Del resto, queste cose le va ripetendo non dall’altro ieri, ma da due decenni. Romano si è addirittura spinto a dire che la Nato andava sciolta dopo la Guerra Fredda, dopo la quale la Nato ha iniziato intervenendo nei Balcani prima e lontanissimo dal teatro atlantico poi, come successo nel Medio Oriente allargato. Tanto che adesso si parla addirittura di una Nato “mondiale” anticinese”.
Nella Nato c’è anche la Turchia, come valuta la sua posizione in materia?
“Anche Erdogan in un’intervista alla Cnn ha detto che nulla lo farà retrocedere dalla sua amicizia con Putin. E parlare di amicizia Mosca-Ankara oggi è notevole, se pensiamo che in Siria, in Nagorno-Karabakh e in Libia Russia e Turchia sono state percepite come rivali e si sono trovate su fronti opposti”.
A cosa dobbiamo questa svolta?
“Ritengo che la Turchia abbia preso atto della sua posizione strategica e l’ha sfruttata molto bene per fare i suoi interessi, non quelli delle alleanze di cui fa parte. In questo sta la grande differenza coi Paesi del blocco euroatlantico. La Turchia ha fatto quel che un tempo, durante la Guerra Fredda, faceva l’Italia di Andreotti, Moro, Craxi, trattando con libertà e autonomia i rapporti con i partner della regione”
E qui torniamo all’esempio classico dell’Algeria…
“Esatto. Non è che il Piano Mattei nasca oggi. Noi prendiamo il gas dall’Algeria dagli Anni Sessanta, dall’indipendenza del Paese dalla Francia. Abbiamo raddoppiato i gasdotti due volte negli ultimi quarant’anni. E non finisce qui. In Tunisia abbiamo avuto una presenza economica molte forte.
Oggi non riusciamo a convincere gli altri Paesi europei a sostenere la Tunisia al Fondo Monetaria Internazionale. E poi ci lamentiamo della bomba migratoria! Queste non sono problematiche di oggi, ma sfide emerse in tutta la loro evidenza da tempo dalla serie di crisi degli ultimi anni”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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