Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Aldo Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. "Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì". Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, racconta all’Ansa l'inchiesta nata proprio da quella lettera anonima inviata nell’ottobre del 2009 a un quotidiano.
"Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni - si legge nella lettera - ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...". L’anonimo fornì anche concreti elementi per rintracciare il guidatore della Honda: "Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all’epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri.
A Rossi, che ha sempre lavorato nell’antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio del 2011, in modo casuale. "Non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti - racconta all'Ansa - ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani". Sarebbe lui l’uomo che secondo l’ingegner Marini, uno dei testimoni più accreditati di via Fani, assomigliava nella fisionomia del volto a Eduardo De Filippo. L’altro, il presunto autore della lettera, era dietro, con un sottocasco scuro sul volto, armato con una piccola mitraglietta. Sparò ad altezza d’uomo verso l’ingegner Marini che stava "entrando" in motorino sulla scena dell’azione. "Chiedo di andare avanti negli accertamenti - aggiunge Rossi - chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la 'pratica' rimane ferma per diversi tempo". Alla fine opta per un semplice accertamento amministrativo: "L'uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria di Repubblica del 16 marzo con il titolo Moro rapito dalle Brigate Rosse, l’altra arma". È una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice. Rossi insiste: vuole interrogare l’uomo che ora vive in Toscana con un’altra donna ma non può farlo. "Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade". Ci sono tensioni e alla fine l’ispettore, a 56 anni, lascia.
Va in pensione, convinto che si sia persa "una grande occasione" perché "c’era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato". Poche settimane dopo una "voce amica" gli fa sapere che l’uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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