"Amori e motori. I miei 70 anni a 300 all'ora"

Compie settant'anni, Luca Cordero dei marchesi di Montezemolo e mille altri soprannomi, alcuni amati e altri meno

"Amori e motori. I miei 70 anni a 300 all'ora"

L'uomo è un libro. Basta aprirlo, puntare a caso un dito e iniziare a leggerlo. Non ha un inizio e non ha una fine, che poi, forse, è proprio ciò che vuole lui. C'è tanto in questo libro. Qualcuno direbbe troppo. Attraversa oltre quarant'anni della storia del Paese e il protagonista può piacere o non piacere ma appartiene a ognuno di noi. A chi lo ammira, a chi lo invidia, a chi lo critica, a chi non lo sopporta. C'è luce ovunque nel suo studio di casa mentre sorseggia un caffè latte indossando polo, jeans e scarpe chiare. Alle sue spalle, dentro una fila di barattoli ordinati sulla grande scrivania, ci sono centinaia di matite allineate e perfettamente appuntite. Sembrano soldatini impettiti di un esercito pronto a proteggerlo perché «ognuno ha le proprie manie», quasi si scusa. «Non sopporto di vederle spuntate». Compie settant'anni, Luca Cordero dei marchesi di Montezemolo e mille altri soprannomi, alcuni amati e altri meno. Ha deciso di aprire il libro. Il suo. È sufficiente puntare il dito a caso. Qui. «Comincio dalla Vespa».

Non dalla Ferrari?

«No, dalla Vespa. Avevo cinque anni. Gita fuori porta. Ci andavamo sopra in tre e ai vigili non interessava. C'erano altri problemi nel Dopoguerra». L'espressione è nostalgica. «Papà davanti, io seduto in mezzo, mamma dietro. Senza casco. Si stava bene con poco, allora. Non c'erano soldi, ma c'erano valori. Quelli in cui ancor oggi credo. Era un'Italia povera ma ricca di dignità. Ecco. Noi nati allora siamo tutti cresciuti con quel sentimento dentro. Ci ha formati. Il vestito della domenica, la giacca da non rovinare. Per questo dico della Vespa. Faceva respirare una tremenda voglia di rinascita, di far squadra. Anche se Striscia la notizia mi ha spesso preso per i fondelli su questo. Eppure, se questo Paese avesse fatto squadra anche solo una volta, oggi sarebbe campione del mondo. Papà, dicevo, aveva un titolo nobiliare ma a fine mese, a contare e pesare sul portafoglio, era solo la laurea in Agraria. Ci dava da vivere il giusto. Nulla di più. La sa una cosa? Sono pieno di curiosità internazionali, però mi sento profondamente italiano. E mi sento emiliano anche se Montezemolo è un bel paese del Piemonte. Mi sento soprattutto bolognese. Amo terribilmente quella città».

La Vespa.

«In quegli anni era l'unico mezzo che avevamo. Serviva in città e per le gite, la domenica tutti insieme. Papà era figlio di un militare piemontese trasferito a Bologna a capo delle forze dell'esercito, mamma la figlia di un commercialista bolognese. Si erano sposati nel '46».

La guerra.

«Gli elmetti. La casa materna distrutta dai tedeschi. Fuori Bologna, lungo la Futa. Lì ho visto le prime auto da corsa, quando passava la Mille Miglia. Avevo cinque anni. E lì i nazisti ci avevano visto un punto cruciale per controllare i collegamenti verso Firenze. Se ne impossessarono. Amavo ascoltare mamma che raccontava di lei e i nonni costretti a vivere in una parte della casa perché il resto era stato requisito. Quando arrivarono gli alleati, i tedeschi, prima di fuggire, la rasero al suolo. L'ho ristrutturata negli anni '90. Conservo ancora gli elmetti nazisti e altri reperti che ho trovato durante gli scavi. È il passato che riemerge e insegna».

Senza casco. La Vespa. Chioma al vento fin da bambino? C'è chi sostiene che sia per i capelli lunghi che dà sempre l'idea di lavorare poco. Anche se per due anni di fila il Financial Times l'ha inserita fra i 50 migliori manager del mondo.

Sorride. Poi non sorride più. «Sa che questa cosa del lavorare poco mi fa veramente incazzare? Sa che per la prima volta in quarant'anni, questo mese, riuscirò a fare venti giorni tutti insieme? Lo chieda a loro, li chiami, domani, tutti quelli che hanno lavorato con me in quarant'anni. Chieda dei sabati pomeriggio quando mi dicevano per favore avvocato, domenica no, questa riunione rimandiamola a lunedì, perché abbiamo delle famiglie noi...? Lo sa che da presidente e amministratore delegato della Ferrari mi sono trovato contemporaneamente presidente di Confindustria e di una Fiat in difficoltà e in mano alle banche e con la famiglia Agnelli unita dopo la morte di Umberto a chiedermi di aiutarla e di assumere quell'incarico? E io che avrei voluto tutto tranne che dire di sì?».

Perché non disse no?

«Perché mio padre mi ha inculcato un viscerale senso della riconoscenza e mi ha insegnato a diffidare sempre di chi non ce l'ha».

Come andò?

«Era martedì. Due giorni dopo sarebbe iniziata la mia presidenza in Confindustria. Io che non ero mai andato in giunta e non ero imprenditore sarei stato eletto con il 98% dei voti. Ritenevo perfetto per quel ruolo Andrea Pininfarina, però suo papà Sergio mi aveva detto che aveva bisogno di lui nell'azienda di famiglia. Martedì mattina avevo cercato Umberto perché mi avrebbe fatto piacere che ci fosse anche lui al mio insediamento. Per la prima volta in una vita Umberto non aveva subito richiamato. Morì due giorni dopo. Proprio il giovedì della mia nomina. E sabato mattina, lo ricordo come fosse ieri, ero al telefono con la famiglia Agnelli riunita. C'erano tutti: Allegra, la moglie di Umberto, molto provata, le voglio bene, ci sentiamo spesso ancora adesso. C'era il figlio Andrea, c'erano i Nasi, John Elkann ancora ragazzo e Gianluigi Gabetti da sempre l'uomo di fiducia della famiglia, a cui sono molto legato. Parlò Susanna Agnelli in viva voce: Luca, ti chiedo a nome di tutta la famiglia di accettare. Era un momento tragico a livello degli affetti e drammatico sul piano imprenditoriale: l'azienda era in mano alle banche su cui stava agendo l'allora ad Giuseppe Morchio per diventarne presidente. Sapevo che Confindustria sarebbe stata per me molto impegnativa. Come potevo diventare anche presidente di una Fiat così in difficoltà? Datemi un giorno per pensarci, avevo risposto. Rimasi sveglio tutta la notte. Parlai a lungo con mia moglie, con i miei figli grandi, Matteo, Clementina, e con Diego Della Valle. È un fratello, Diego».

E alla fine il sì. C'era anche un po' di sana ambizione?

«No. Solo riconoscenza. Viscerale. Io se devo qualcosa a qualcuno mi posso anche buttare nel fuoco. Mi dissi: se per egoismo o scelta di vita rispondessi di no alla famiglia dove, tolto il garante Gabetti, non c'erano più uomini perché John era ancora troppo giovane, non me lo perdonerei mai più. E così l'indomani chiamai Suni (Susanna Agnelli, ndr) e accettai. La mia vita era legata a lei, all'avvocato Agnelli, a Umberto, a queste persone».

Colpa di suo padre.

«Oltre al senso della riconoscenza, papà mi ha inculcato il senso del lavoro».

Il fatturato della Ferrari è 10 volte quello di quando arrivò, lei ha vinto 19 titoli ed è nella Hall of Fame del motorsport. Ovvio che per tutti sia soprattutto fortunato.

«Scusi: direttore sportivo Ferrari nel '75 quando non vinceva da un decennio, è solo fortuna o c'era da cambiare e qualcuno credeva che ne fossi all'altezza? E scusi, le relazioni esterne Fiat nel pieno del terrorismo? E Azzurra e la presidenza d'Italia '90 chiamato da Havelange, numero uno Fifa? E il ritorno in una Ferrari perdente, nel '91, in cassa integrazione, con modelli vecchi e alla vigilia della crisi dell'auto? E la presidenza Fiat in un momento terribile? È solo fortuna? O forse credevano in me che ci ho messo sempre la faccia? Solo fortuna o è anche un po' di coraggio, di curiosità, di visione, di passione? E Confindustria? Ancora oggi molti amici imprenditori si ricordano con piacere della mia Confindustria...».

Un nome.

«Ad esempio Fedele Confalonieri, un amico che stimo da anni. Ma guardi, è sufficiente elencare alcuni degli uomini di cui mi ero circondato in quella Confindustria per comprendere di che livello fosse: Alberto Bombassei, Marco Tronchetti Provera, Andrea Pininfarina, Pasquale Pistorio, Gianfelice Rocca e Gian Marco Moratti».

Invece la fortuna come un marchio.

«Sì, sì, un fortunato che non fa nulla. Come con Italo. Un successo frutto di un'idea, di un rischio, di una grande avventura imprenditoriale iniziata da un foglio bianco e fra mille difficoltà. Undici milioni e mezzo di passeggeri nell'ultimo anno. Eppure... solo fortuna. Anche se Italo è stata una scommessa e una guerra contro il monopolio delle Ferrovie dello Stato e un competitor che allo stesso tempo era allenatore della squadra rivale e arbitro, che ce ne faceva di tutti i colori: ci dava orari impossibili, binari irraggiungibili, ponendo ostacoli di ogni genere e dichiarando che il nostro treno era pericoloso e che rappresentavamo la testa di ponte delle ferrovie francesi in Italia!».

L'amicizia.

«Io diffido di chi dice ho tanti amici e di chi non ne ha nessuno. È altro ciò che faccio io, me l'hanno insegnato Giovanni Agnelli ed Enzo Ferrari. È a loro che devo tanto».

Che cos'è?

«È succhiare esperienza. È imparare da chi ne sa più di me».

Agnelli e Ferrari come facevano?

«L'avvocato quando incontrava una persona interessante parlava poco e lasciava parlare. Voleva arricchirsi delle esperienze altrui. Anche Ferrari. Davanti a lui avvertivano il mito e si aprivano. Ferrari mi voleva tanto bene. All'epoca, dare fiducia a un ragazzo di 25 anni era da pochi. Ci legava la passione per l'Emilia. E la curiosità. Mi chiedeva delle fidanzate, poi un giorno iniziò a chiedermi di Edwige».

Edwige Fenech.

«Non ero più alla Ferrari da tempo. Lavoravo alla Cinzano. Voleva conoscerla e quando alla fine gliela presentai, ne fu entusiasta. Dopo che Edwige se ne fu andata, lui mi prese da parte e mi disse: Guarda che lei è molto meglio di te. E ci credo, gli risposi, è una gran bella.... No, no, m'interruppe lui, non lo dico perché è bellissima, ma perché è più intelligente di te. Sì. Una persona meravigliosa Edwige. Ci siamo conosciuti che avevo 38-39 anni, siamo rimasti insieme diciassette anni».

Che effetto faceva vivere con un'icona degli uomini italiani?

«Quante voci su di noi, quante gelosie, invidie. Quando conduceva Domenica in entrava nella casa di tutti. Ricordo i maligni: Ah, è lì perché è la compagna di Montezemolo. E intanto tentavano di screditare me perché doveva per forza essere poco serio un manager che stava con un'attrice».

E poi il matrimonio con Ludovica Andreoni.

«Sono fortunato, siamo sposati da 17 anni. L'amo come compagna e come splendida e bravissima madre. Sì, siamo una bella famiglia. Un po' allargata, ma bella. Ho due figli grandi, Matteo e Clementina. Matteo che a Londra, sul lavoro, mi sta regalando grandi soddisfazioni a capo del fondo di investimento Charme, e mi ha dato tre nipotini: Massimo, Andrea e Lidia. E Clementina, psicologa infantile, che con la sua onlus Behind Lampedusa aiuta i bambini che arrivano con i barconi. Da lei ho un'altra nipotina, Luce. E poi ci sono i tre tesori miei e di Ludovica: Guia e Maria ormai adolescenti e il piccolo Lupo».

Gli insegnamenti di Ferrari e Agnelli.

«Ho cercato di circondarmi di persone che fossero più brave di me. A fine anni Settanta, quando Umberto, all'epoca ad della Fiat, mi chiamò alle Relazioni esterne, scelsi persone che poi hanno dimostrato tutto il loro valore. Penso a Marco Benedetto per una vita amministratore delegato del Gruppo Repubblica-Espresso, penso a Lorenzo Pellicioli, presidente e ad di De Agostini, penso ad Antonello Perricone. Ma anche più di recente: adesso si parla molto di Carlo Calenda, sta facendo un gran lavoro al governo. Carlo è cresciuto con me in Ferrari ed era nella mia Confindustria, arrivò a Maranello che era un ragazzino. Così come Andrea Zappia, ad di Sky Italia e Michele Scannavini, presidente di Ice. Ma anche Stefano Domenicali, oggi a capo di Lamborghini. Sì, non smettere di imparare, coltivare interessi e relazioni internazionali, questa è l'essenza. Giusto ieri, grazie a un imprenditore australiano ho scoperto un mondo legato alle app per gestire online le greggi».

Montezemolo pastore è dura da immaginare.

«Ma anche ferroviere. Italo è un successo. Dopo la Vespa e prima dell'auto, nella mia vita ci sono stati i treni. Mio padre si trasferì a Roma quando avevo sette anni. Era stato assunto all'Associazione per le bonifiche. I miei mi iscrissero alla terza elementare. Scuola pubblica. Dell'arrivo a Roma ricordo la famiglia del piano di sotto che aveva il televisore. Ci andavamo per vedere Lascia o raddoppia?. Bologna mi mancava. I nonni mi mancavano. Così papà e mamma mi caricavano sul treno e spedivano da loro... La sa una cosa? Italo va bene. E presto andrà ancora meglio: introdurremo nuovissimi treni per collegare Torino e Milano a Venezia. Ne beneficeranno tutti».

Come è nato Italo?

«Un amico napoletano, Gianni Punzo, mi presentò un signore che aveva lavorato nelle ferrovie. Ma perché non pensa a mettere insieme una cordata di imprenditori che investa nell'alta velocità?, mi disse. Gli risposi ma è matto? E dove troverei il tempo per competere con il monopolio di Trenitalia?. Ma da quel momento ci pensai giorno e notte e decisi che poteva essere una grande idea. Iniziai a parlarne con Diego, con Corrado Passera allora capo di Intesa, con amici imprenditori, Alberto Bombassei (Brembo, ndr), Isabella Seragnoli (Coesia, azienda leader del packaging), con le Generali, e alla fine loro, che non avevano mai lavorato con i treni, hanno dato vita a questo».

Invece male con Roma 2024 e Alitalia.

«Rinunciare a Roma 2024 è stata una decisione masochistica, sbagliata e ideologica. Avremmo stravinto. Una grande occasione persa dal Paese e soprattutto da Roma ridotta oggi in condizioni a dir poco pietose. E mi spiace molto per il grande lavoro fatto dal mio amico Malagò. Quanto ad Alitalia, ho avuto due ruoli. Su pressione del governo, di convincere gli arabi di Etihad a investire. Sono così arrivati in Alitalia 700 milioni quando era ormai tecnicamente fallita. E poi ho dovuto tenere uniti gli azionisti. Ero il garante, ma senza deleghe. Non avevo potere decisionale. E tuttavia eravamo riusciti a convincere gli azionisti a rilanciare. Tant'è vero che la proposta andata a referendum prevedeva investimenti per altri 2 miliardi. Lo dico con amarezza, con quel referendum è stato sancito un principio nuovo: i dipendenti possono autolicenziarsi. Perché, comunque vada, ritengo che purtroppo non rimarranno 12mila persone in Alitalia».

Diceva del suo arrivo a Roma.

«Giocavo in portineria, col figlio dei custodi del palazzo. I miei genitori fecero un investimento pensando al mio futuro e mi iscrissero all'Istituto Massimo, era la scuola dei Gesuiti frequentata dalla borghesia romana».

A chi si è ispirato oltre ad Agnelli e Ferrari?

«Ho imparato tanto da Michele Ferrero, con cui mi sono confrontato spesso. Un gigante. Adoravo il modo in cui aveva concepito il rapporto tra azienda e lavoratori: quel suo concetto di fabbrica-famiglia. È anche a lui che mi sono ispirato quando a fine anni '90 ho avviato il programma di Formula Uomo alla Ferrari. Le aiuole nel reparto motori e duecento alberi, storicamente l'ambiente meno sano di tutte le fabbriche d'auto. Ai dipendenti della Ferrari abbiamo garantito libri scolastici ai figli, corsi estivi, check up, assistenza sanitaria, bonus, feste di fine anno. La Ferrari venne premiata dal Financial Times come il miglior posto d'Europa dove lavorare. Per me una gioia pari a quella di un mondiale vinto».

E per ringraziamento, una minoranza le fece sciopero.

«E mi infuriai. Radunai tutti e dissi: Avete queste tutele e per colpa di duecento di voi volete rischiare di perderle e di far del male alla Ferrari?. Gli agitatori vennero isolati dagli stessi lavoratori e io finii in tribunale per comportamento antisindacale».

Con le dovute proporzioni, ricorda la marcia dei 40mila colletti bianchi Fiat.

«Eccome. All'epoca ero a capo delle relazioni esterne del gruppo. Era il 14 ottobre 1980. Ricordo che la mattina mi chiamò il direttore del Giornale: Ciao Luca, sono Indro, ma è proprio tutto vero?. Voleva ogni dettaglio».

Lei e Montanelli? Se ne è parlato poco.

«Grande Indro, ci vedevamo spesso. Quando gli spararono lo raggiunsi in ospedale. Era provato fisicamente ma emanava una grande serenità. Erano anni terribili: giornalisti, politici, dirigenti uccisi, rapiti, gambizzati. Quando arrivai come capo delle relazioni esterne della Fiat era appena stato ucciso Carlo Casalegno. Avevo rapporti con tutte le categorie a rischio. E ci pensavo ogni mattina: E se oggi toccasse a me?. Comunque sì, ero legato a Montanelli. Ricordo che a Cortina, dopo il mio divorzio, Indro e Colette mi ospitarono una sera a casa loro, così, per tirarmi su il morale».

Altri che l'hanno ispirata?

«Ralph Lauren. Partito da una bancarella ha creato un impero. Erano i primi anni '90, era venuto a comprarsi una Ferrari e c'era rimasto male. In effetti l'azienda che mi avevano affidato Agnelli e Romiti era più o meno quella che avevo lasciato nel 1976. Ralph mi disse: Mi sarei aspettato di trovare più high technology, più cura dell'ecologia, più eleganza.... Aveva ragione. Da lì in poi rivoltai l'intero piano regolatore della Ferrari».

Amici fuori dal lavoro?

«Alcuni della scuola. Penso a Carlo ed Enrico Vanzina, dei fratelli. Il loro papà, il regista Steno, mi portò a vedere la prima partita di calcio. E penso a esponenti di mondi diversi come Lucio Dalla, che purtroppo non c'è più, con cui ho condiviso tantissimi momenti. E a Gino Paoli. Nel giorno del mio addio alla Ferrari misero proprio una sua canzone come sottofondo: Una lunga storia d'amore».

Il segreto del rilancio Ferrari?

«Abbiamo dovuto riorganizzare completamente il modo di lavorare in fabbrica, il rapporto con i fornitori, la strategia dei nuovi modelli puntando a delle Ferrari diverse per ferraristi diversi. Mi spiego: abbiamo realizzato modelli con il motore anteriore e altri con quello posteriore, fornendo motori 8 cilindri e 12 cilindri. Tutte vetture con una straordinaria innovazione tecnologica e guardando sempre avanti anche nel design, senza però mai perdere il dna della Ferrari e l'esclusività. Uno dei giorni più belli della mia vita fu proprio quando il Politecnico di Milano mi diede la laurea honoris causa in Ingegneria del Design. Erano presenti tutti i più grandi designer, da Vico Magistretti a Renzo Piano, da Giorgetto Giugiaro e Philippe Starck e Sergio Pininfarina. Le svelo un altro aneddoto: quando arrivai in Ferrari nel '91, a tutti i manager consegnai delle riviste di design e moda. Guardate le pubblicità, i colori. Guardate dove sta andando il mondo per capire che cosa dobbiamo produrre, dissi. Al mio arrivo c'erano due modelli scomodi. I colori li sceglievano gli ingegneri, e di fronte ai progressi dell'elettronica tutti restavano fermi pensando che Ferrari si sarebbe rivoltato nella tomba alla sola idea. Cambiai tutto».

Quanto contò Agnelli per il suo primo arrivo alla Ferrari nel '75?

«Zero».

E allora chi? Come?

«Merito del '68 e di Enzo Ferrari e... di Gianni Boncompagni». Un velo di tristezza. «Se n'è andato, Gianni. Tutte le volte mi diceva Ahooo, tu me devi benedì, se non ci fossi stato io altro che Ferrari.... Aveva ragione. Merito del '68 perché mentre gli altri studenti occupavano le università... a proposito: laurea in legge, 110 e lode con pubblicazione della tesi e borsa di studio alla Columbia University però, com'è che dicono? Non ho mai fatto un cazzo e sono solo stato tanto fortunato... Dicevo: con le università occupate avevo tempo per correre a Vallelunga con Cristiano Rattazzi».

Eccolo. Rattazzi. Cioè il figlio di Susanna Agnelli. Questa è vera fortuna.

«No, questo è un vero amico».

Sì, ma com'è che il figlio di un dirigente, benché di nobili natali, si ritrova amico fraterno di un Agnelli?

«Era in classe con me all'Istituto Massimo».

Scusi, questa è fortuna.

«La mia vera fortuna fu che Susanna Agnelli, la mamma di Cristiano, mi volle subito un grandissimo bene e che si creò un rapporto speciale. Ero un bambino di nove anni. Un affetto reciproco durato una vita. Poco prima di morire ha voluto che assumessi io l'impegno di guidare Telethon, la sua creatura. Suni è stata come una seconda madre».

E l'avvocato Agnelli un secondo padre. Anzi, gira da sempre quella voce lì...

Sorride. «Sì sì, la solita, che io sarei suo figlio. Ma per favore... Ma povera la mia mamma... Ma povero il mio papà...».

Torniamo a Ferrari e Boncompagni.

«Semplice: con Cristiano avevamo preso una 500 facendola elaborare».

Ovviamente pagò lui.

«No a metà. Io ero Nerone, lui Virgilio. Usavamo pseudonimi perché lui era un Agnelli e io perché se papà l'avesse saputo mi avrebbe preso a sberle. Anzi, mi prese a sberle».

Per la scuola o per le corse?

«Entrambe. Gli dissi che ero andato a studiare invece ero a correre. La faccio breve: arrivai a partecipare al Mille Laghi in Finlandia e a un Sanremo. Fatto sta, una mattina c'era una trasmissione radiofonica, Chiamate Roma 3131, era di Boncompagni. Tema: le corse d'auto. Fui invitato. Un radioascoltatore telefonò e disse cose terribili contro le gare, la F1 e la Ferrari. Io difesi le corse con tutta la forza che avevo. Poco dopo chiamò in trasmissione Enzo Ferrari: Vorrei ringraziare quel giovane che ha parlato così bene e difeso la Ferrari. Mi invitò ad andarlo a trovare... Lo feci un anno dopo, credo fosse il '73, tornando da New York dove frequentavo la Columbia University e intanto arrotondavo per mantenermi lavorando in uno studio legale. Mi disse: Ho bisogno di un giovane come lei per assistente, sa, sono circondato da ingegneri.... Divenni presto direttore sportivo».

Niki Lauda arrivò con lei?

«Sì, a Ferrari piaceva Jarier. Io pensavo che accanto a un napoletano caldo come Clay Regazzoni, servisse un giovane freddo come Niki per di più sponsorizzato proprio da Clay. Firmò il contratto nella hall di Linate: Voglio questo, scrisse in scellini. Comprai il Sole 24 Ore, controllai, era poco, dissì di sì... È un grande amico Niki, ancora oggi».

Ha accennato alla Columbia. Il periodo a New York quanto ha contato?

«È stato molto importante per la mia crescita, mi aprì la testa verso il mondo, fu una grande esperienza di vita. Legai molto con due professori, il politologo Zbigniew Brzezinski e il futuro ambasciatore a Roma Dick Gardner».

Come conobbe l'avvocato Agnelli?

«Studiando a casa di Cristiano. L'avvocato fece visita alla sorella e al nipote e restammo a parlare a lungo. Ci fu subito un'inspiegabile e immediata empatia. Poi Suni mi disse che di me aveva avuto un'ottima impressione».

Che cos'è stato per lei?

«Un secondo padre molto complice, una persona da cui ho imparato tanto e a cui devo molto. Un grande amico con cui, al di là della differenza di età, avevo molto in comune. Come l'orgoglio di essere italiano e il desiderio del bene per questo Paese. La passione per l'arte moderna, la passione per il calcio e la passione per...».

Per le donne.

Sorride. «Giovanni Agnelli è stato un padre confidente e compagno di passioni. Però, vede, la grande soddisfazione è stata un'altra: che mi ritenesse all'altezza di affidarmi importanti responsabilità. Non era lui, come non lo sono io, una persona che avrebbe mai fatto una cosa simile solo per amicizia. Conservo ricordi meravigliosi. Perché l'avvocato era una persona che stava bene dappertutto. Era molto più semplice di quel che la gente ha sempre creduto, così come il fratello Umberto».

L'avvocato l'ha sostenuta anche nei momenti di difficoltà.

«Sì, come nei primi anni da presidente Ferrari, i successi tardavano ad arrivare e ogni giorno media, tifosi, e anche impazienti ad della Fiat, chiedevano la testa di Jean Todt. Una persona, Todt, per me importante e che ha avuto un ruolo fondamentale nelle tante vittorie della Ferrari. E sì, Agnelli mi è stato vicino anche quando ho commesso degli errori».

Come quell'errore che ogni tanto riaffiora: i soldi presi per agevolare un incontro fra un imprenditore e l'avvocato Agnelli.

«Era il '77. Sono passati 40 anni. Ne avevo 30. Fu un errore di gioventù. L'ho sempre detto: una cosa che avrei preferito non aver commesso, qualcosa di cui allora mi vergognai molto. Però è stata una vicenda fondamentale per la mia vita: perché ogni tanto sbattere le testa contro il muro fa bene, fa crescere. Meglio diffidare di chi dice di non aver mai sbagliato».

Ha svelato la vicinanza a Montanelli, ha detto di Confalonieri. Berlusconi?

«Ci conosciamo da 40 anni. Il primo incontro fu nel '76. Era venuto alla Fiat per parlare con Agnelli. Voleva comprare Teletorino».

Nel 2001 come andò realmente?

«Berlusconi mi propose come ministro parlando a Porta a porta. Telefonai a Gianni Letta che mi spiegò: Sai, ti vuole bene, ti stima. Ero in grossa difficoltà. Così chiamai l'avvocato Agnelli. E anche lui: Lo devi fare Luca. Per il Paese. Non me la sento, gli risposi. Due mattine dopo, in Ferrari, mi arrivò sul tavolo un plico di dieci pagine: erano tutte le firme dei lavoratori che mi chiedevano di restare. Chiamai Silvio e glielo dissi: Ti ringrazio, ma di fronte a questo non posso proprio lasciare».

Ha poi rimpianto quella rinuncia?

«Forse di fare il ministro in senso operativo sì. Ma avendo poi toccato con mano indirettamente il mondo politico, allora no».

Lei e Berlusconi siete sempre stati percepiti come molto simili eppure vi siete scontrati anche duramente.

«È nelle cose quando uno è capo del governo e l'altro guida Confindustria. La verità è che, ferma la simpatia personale e la consapevolezza che stesse facendo molte cose buone, mi ero trovato in forte conflitto non tanto con lui quanto con alcuni membri del suo governo. C'è stato un momento in cui aveva una maggioranza talmente forte che avrebbe potuto affrontare quei 3-4 nodi fondamentali, non 10. Nodi che ancor oggi cambierebbero il Paese. Su tutti penso al costo del lavoro per le imprese e alla burocrazia. Detto questo, credo che col passare degli anni, soprattutto di questi tempi, molti si siano anche resi conto delle cose buone che ha fatto. Comunque, sì, parlando di imprenditori, è come in F1: ci sono campioni e ci sono pochi fuoriclasse come Senna e Schumi. Silvio appartiene a questa seconda categoria e tra noi c'è vera amicizia».

Per questo di recente ha parlato di lei come futuro ministro degli Esteri?

«Silvio è un grande maestro di comunicazione».

E qualche giorno dopo ha aperto a Marchionne. A proposito: lo scontro con l'ad Fca, il suo brusco addio alla Ferrari. Cosa successe veramente?

«No. Ho ripercorso con lei 40 anni di vita perché sto per compierne 70 e mi tocca accettarlo. Ma per indole io guardo solo e sempre al futuro e ho tante idee. Ogni storia finisce, quel che è importante è il modo in cui una storia finisce. Di quella vicenda ho solo un pensiero, ed è legato agli insegnamenti di mio padre, che mi ha inculcato un senso della riconoscenza che purtroppo non è di tutti, e mi ha dato anche la forza di lasciare sempre fuori dalla mia vita invidia e gelosia.

Io sono orgoglioso dei risultati sportivi e commerciali ottenuti insieme con delle persone eccezionali come le donne e gli uomini della Ferrari. E questo mi basta. Parafrasando il mio amico Gino Paoli, tra me e la Ferrari c'è una lunga storia d'amore. Che non finirà mai».

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