Mimmo Lucano, la banca di Riace. Viene descritto così l’ex sindaco dell’accoglienza nelle carte della procura di Locri. Soldi pubblici destinati ai migranti dati in prestito ad amici e conoscenti in cambio di voti e favoritismi. È questa l’accusa scritta nera su bianco tra le 983 pagine dell’inchiesta “Xenia”. “Mimì” ordinava alla sua fida collaboratrice Cosimina Ierinò di pagare “il fornitore Gervasi Alberto, titolare di un alimentari in Riace, senza che ci fosse una reale operazione commerciale.” Il bottegaio in questione è il padre dell’ex Vicesindaco di Riace, Giuseppe Gervasi. È a lui che Mimmo Lucano consegna un libretto degli assegni in bianco. Libretto intestato all’associazione Città Futura, diretta da Antonio Capone ma, di fatto, gestita da Mimmo Lucano. Era lui il presidente. Era lui a gestire tutto. Capone era solo un prestanome. Bisognava mantenere gli equilibri politici se si voleva continuare a regnare a Riace per i prossimi anni.
L’accoglienza fruttava e anche tanto e, una nuova amministrazione, magari leghista, avrebbe creato non pochi problemi a Mimmo Lucano e a tutte le associazioni di Riace. Avrebbe potuto interrompere il business messo in piedi nella città dei Bronzi. Mettere fine a tutto. I migranti erano tanti, come si soldi che, nel piccolo paese della Calabria, arrivavano in grande quantità. Milioni di euro l’anno. Milioni che, secondo l’accusa, venivano spesi con leggerezza. Spesi non per le esigenze degli ospiti degli Sprar e dei Cas, ma per meri scopi personali. Giuseppe Gervasi, ai tempi vicesindaco di Riace, mette pressioni a “Mimì U’Curdu”.
A suo padre servono soldi e Lucano ne parla con l’ex assessore Maria Spanò. “...pure Giuseppe, (il vicesindaco ndr) non credere, il padre vuole anticipato i soldi sui bonus ...ma ti rendi conto che qua noi non sappiamo se andiamo avanti, ti diamo tutti questi soldi poi come ce li restituisci...” dice Lucano in una intercettazione registrata l’otto settembre del 2017 che ammette di essere sotto scacco della politica. “Ovviamente io devo cedere perché sono con le spalle al muro sistematicamente o per la politica o per un cazzo o per un altro e praticamente noi dobbiamo anticipargli i bonus... non li raccoglie mai perché non vende nulla, non vende nulla".
E così i soldi dei migranti finivano nelle tasche dei compagni di partito di Mimmo Lucano. Soldi destinati ai profughi. “Abbiamo dovuto darglieli - ammette Mimmo Lucano - con una gravissima incertezza... il figlio chiama a Tonino Capone e gli dice "mio padre non dovete abbandonarlo", nei confronti di Alberto noi siamo come la banca.” Una banca che presta denaro pubblico anche senza un minimo di garanzia, una baca generosa. D’altronde Lucano era così. È stato lui stesso ad ammetterlo. “Per raccogliere 4.000 euro che gli abbiamo dato prima è trascorso un anno, praticamente... però ora c'è incertezza, tu non puoi pensare che ti paghiamo prima del tempo i prodotti che hai nella bottega... è come se tu mi dicessi al panificio "senti pagami 3.000 euro che poi il pane piano piano te lo compri", è una cosa corretta questa?” chiede all’ex assessore Spanò. Mimmo Lucano pensava che non fosse giusto, però, nonostante tutto lo faceva. Elargiva soldi, come se fossero i suoi. “...ho detto a Cosimina Ierinò "dagli un blocchetto d'assegni in bianco, gli ho detto portatelo tu Alberto, ormai, scrivi quello che vuoi". Ecco come agiva Lucano. Tutto in cambio di appoggi. L’accusa sottolinea come a quella conversazione ci siano tuti i riscontri.
Riscontri "trovati dall’esame della documentazione allegata alla Rendicontazione Sprar 2016 e dall’esame degli accertamenti bancari". Riace, un pozzo senza fondo. Un abbeveratoio pubblico, dove tutti erano liberi di attingere e dissetarsi a spese dello Stato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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