“Quando entri in carcere con una condanna da scontare sai quant’è alta la montagna che devi scalare, ti organizzi mentalmente, puoi costruire un viaggio interiore e fronteggiare l’abisso. Quando non capisci perché sei dentro né per quanto ci resterai, c’è da impazzire. Lo stato di angoscia è esponenziale, in funzione di variabili che non conosci e non controlli: pensi che se il pm o il gip hanno litigato con la moglie proprio il mattino in cui devono decidere su di te, tu starai dentro quindici giorni in più; ma che se invece la figlia ha preso la lode all’esame di laurea, firmeranno subito”.
Queste parole sono tratte dal libro “Io non avevo l’avvocato”, edito da Mondadori, la storia vera di Mario Rossetti, 50 anni, ex direttore amministrativo e finanziario di Fastweb, laurea in economia e master ad Havard, coinvolto nel processo Fastweb-Telecom-Sparkle. Definito dai giudici “l’uomo di Silvio Scaglia”, il fondatore di Fastweb, Rossetti è stato sbattuto in prigione per più di 100 giorni, e per 8 mesi ai domiciliari, prima di essere dichiarato innocente dai giudici di primo grado. Uno dei tanti casi di “ordinaria carcerazione preventiva” in Italia, come molti la definiscono. Un incubo che non è ancora finito perchè i pm hanno impugnato la sentenza ed è attesa la decisione d’appello. E che ha visto anche la tragica morte del figlio più piccolo del 50enne che, nel frattempo, si è ammalato di cancro e non è riuscito a vincere la malattia: “una scomparsa- scrive Rossetti- forse soltanto coincisa con la violenza, insensata ed arbitraria, che si è abbattuta su casa nostra”.
Il calvario è iniziato all’improvviso, una mattina di febbraio del 2010. In casa dell’ex manager, a Milano, c’era anche la moglie e i tre figli di 2, 9 e 10 anni, “troppo piccoli per capire, ma abbastanza grandi per ricordare tutto ancora oggi con grande precisione”. Gli uomini del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza di Roma piombarono all’improvviso. Dopo aver messo a soqquadro la casa, portarono via in manette Rossetti. Prima a San Vittore, poi a Rebibbia.
L’accusa mossa dalla Procura Capitolina è quella di aver partecipato all’associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale nell’ambito delle operazioni Phuncards e Traffico Telefonico: la vendita di carte telefoniche e servizi telematici con traffici inesistenti, che avrebbero consentito alle società debitrici dell’Iva di non versare il tributo. Gli inquirenti si erano concentrati, in particolare, sulla prima operazione, che si è svolta nel 2002-2003, ovvero nel pieno della direzione amministrativo-finanziaria dell’indagato, durata fino al 2005.
Il primo interrogatorio risale al febbraio 2007. Rossetti fu chiamato a rispondere come indagato, non come testimone. Poi l’inchiesta fu archiviata. L’arresto arrivò ben 3 anni dopo. Le accuse erano le stesse del 2007. Qualche tempo dopo l’archiviazione, infatti, i Ros intercettarono casualmente il faccendiere Gennaro Mokbel, e i magistrati chiesero la riapertura del fascicolo.
In molti hanno chiesto a Rossetti perchè, a suo parere, sia finito in carcere. Lui ha risposto di non averlo mai capito: “Ho passato giorni a leggere l’ordinanza, senza trovare niente sulla mia presunta complicità con Mokbel. Forse i pm pensavano che avrei confessato. Nel corso del dibattimento hanno cercato di motivare la mia colpevolezza dicendo che 'non potevo non aver capito'. Che motivazione sarebbe? Di una cosa sono sicuro: i giudici non possono non sapere cosa dice il Codice di Procedura Penale riguardo alla custodia cautelare. Ci sarebbero tre motivi per giustificare un arresto preventivo, e nel mio caso non erano riscontrabili: reiterazione del reato, inquinamento probatorio, fuga. Io, nel 2010, lavoravo per un’altra azienda: in che senso avrei potuto reiterare il reato? Il reato era stato commesso prima del 2007, c’era già stata un’inchiesta: non esisteva alcun pericolo concreto e preciso che le inquinassi. Avevo una famiglia con figli piccoli, e tutti i beni sequestrati: dove sarei fuggito”, ha spiegato l’ex manager, appena tornato in libertà.
Gli hanno messo sotto sigilli i beni, bloccato i conti correnti: “È come se avessero messo in prigione anche la mia famiglia”. Probabilmente non avrebbe neppure potuto difendersi se non fosse stato aiutato da Fastweb: “E io parlo da fortunato- ha spiegato a ridosso della scarcerazione- rispetto alle migliaia di poveri cristi in galera. Il carcere è pieno di persone ai margini: gli avvocati non vengono neanche a difenderli, perché non hanno i soldi”.
Con un tono sempre pacato, mai rabbioso, anche quando il suo racconto fa arrabbiare lo stesso lettore, Rossetti parla anche della solidarietà in prigione, delle sue passeggiate sempre uguali attorno al cortile nell’ora d’aria, della claustrofobia, degli spazi troppo stretti e troppo buii, dell’assenza di lavoro in prigione, che ti aiuterebbe a far passare il tempo e “a tener la testa fuori”, ma che è un bene prezioso e negato ai più: “Per questo, fare lo ‘scopino’ o lo ‘spesino’, lavorare nelle cucine sono attività per cui si lotta, anche perché ottenerle dipende solo dalla simpatia o meno di qualche ispettore della polizia penitenziaria. Nel mio caso non è possibile perché i miei sono ancora arresti cautelari e nessuno se l’è sentita nemmeno di autorizzarmi a lavorare in biblioteca per timore di contatti con gli altri coinquisiti”.
“Io non avevo l’avvocato” è un libro che scotta. Che arriva nel momento in cui impazzano le polemiche sulla riforma della legge Vassalli per l’inasprimento delle responsabilità civili dei giudici. È un libro che deve far riflettere e che Rossetti ha voluto pubblicare senza aspettare che la sua assoluzione divenga definitiva.
Anche in un momento in cui qualsiasi difensore avrebbe suggerito strategicamente il silenzio. Imprudente forse, ma che chiede forte e chiaro solo una cosa: che sia fatta giustizia, e non solo per lui.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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