Quella cicatrice sovietica sulle democrazie dei Paesi dell'Est

La cicatrice è ancora profonda. È il segno, come uno sfregio nella testa e nel cuore, che dopo trentacinque anni non scolora

Quella cicatrice sovietica sulle democrazie dei Paesi dell'Est
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La cicatrice è ancora profonda. È il segno, come uno sfregio nella testa e nel cuore, che dopo trentacinque anni non scolora. Sembra più forte del tempo. È qualcosa con cui bisogna fare i conti. È la lunga transizione dal totalitarismo alla liberal democrazia. Tutti si sono illusi che sarebbe stata costante e piuttosto veloce. Non è così. La storia non si cancella con una data. Il 1989 è una svolta, ma quello che c'è stato prima non è stato bonificato. È visione del mondo, abitudine, sentimento, educazione, approccio, esistenza stratificata che si trasmette per generazioni. Il passato resta, come accade per un terreno che conserva le orme di ciò che è stato coltivato. È per questo che quando si parla di Russia, Ungheria, Polonia e di chiunque abbia vissuto per decenni dentro la Cortina di ferro la sensibilità sui diritti inalienabili è bassa. Tutto quello che era al di là, da questa parte, non era perfetto, ma lì si stava peggio e soprattutto si aveva un'altra idea di «libertà». Non è immune da questa storia neppure quella che un tempo si chiamava Ddr, perché la Germania sarà pure una e forte, ma la sensibilità democratica è diversa. È il prezzo da pagare all'educazione sovietica.

Ora qualcuno dirà: ma che c'entrano i soviet con l'Ungheria di Orbán? La famosa «democratura» magiara non ha nulla a che fare con le ombre comuniste. È autocrazia di destra. È ordine e disciplina. È Dio, patria e famiglia. Non ha nulla a che fare con l'utopia della società senza classi, con la liberazione dal lavoro, con l'abolizione della proprietà privata, con il superamento per necessità storica del capitalismo. Putin o Orbán, ti diranno, sono al contrario figli della dissoluzione dell'Unione Sovietica. Quasi a sottintendere: si stava meglio quando si stava peggio. Quasi a rimpiangere Leonid Breznev, con la sua faccia di cartapesta che attutisce ogni sogno. È la caduta del Muro che ha favorito le derive autoritarie.

La realtà è che i guinzagli per i detenuti in tribunale sono considerati «normali» perché lo erano anche prima. Quelle catene non scandalizzano gli ungheresi perché svelano un'illusione, la speranza che l'ingresso in Europa avrebbe cambiato l'orizzonte. Il terreno su cui cresce l'autoritarismo non ha intolleranze rispetto al colore: nero o rosso, verde o giallo, populista o nazionalista, fa lo stesso. È un terreno grasso, di massa, che accoglie tutto ciò che sembra scacciare la paura. È un terreno che promette sempre sicurezza. È la vecchia storia del Grande Inquisitore, quella leggenda che Fëdor Dostoevskij lascia raccontare a Ivan Karamazov. Siviglia, Sedicesimo secolo, Inquisizione, Cristo decide di tornare nel mondo per riportare la Chiesa all'interno del Verbo. Ancora una volta servono i miracoli, qualcuno lo segue, qualcun altro lo crede un impostore, la legge decide la sua sorte. L'inquisitore, che ne riconosce l'origine divina, ordina comunque il suo arresto e lo condanna al rogo. Nella notte il gesuita si reca dal prigioniero e spiega i motivi della sentenza. Cristo dice non ha il diritto di interferire con le scelte della Chiesa, a cui ha trasmesso il suo potere e la sua autorità. Cristo ha sbagliato, si è illuso sul conto degli uomini. Ha concesso il libero arbitrio, la possibilità di scegliere. Ha proposto una religione adatta esclusivamente a individui superiori, capaci di addossarsi la fatica della libertà. «Nessuna scienza argomenta il vecchio inquisitore darà loro il pane finché resteranno liberi, e alla fine non potranno che deporre la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: rendeteci pure schiavi, ma sfamateci». Non importa il colore del pane.

Il terreno della libertà e della democrazia è invece molto più fragile. Non puoi coltivarci di tutto, perché si avvelena e si rinsecchisce. Ha bisogno di molta acqua. Si consuma in fretta. È sempre in bilico, le tracce svaniscono con le prime ombre. Ci sono libertà che vengono prima dello Stato e prima della legge. Sono i diritti che la civiltà occidentale, con secoli di fatica, riconosce come inalienabili. Nessuna maggioranza dovrebbe permettersi di ignorarli o cancellarli.

Il guaio è che da tempo non sono più sacri. Li buttiamo via in nome di qualsiasi emergenza. Questo accade anche nell'Europa cresciuta a Ovest, figuratevi in quella dell'Est. È questo il demone dell'Ungheria. Il potere di Orbán è la nostalgia di un muro.

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