La deriva di Ostia dalla Dolce vita a Roma Capoccia

Da luminoso teatro della Dolce vita balneare a cupo scenario di una movida brutale

La deriva di Ostia dalla Dolce vita a Roma Capoccia

C'era una volta Ostia luminosa come fosse quella eucaristica. Non dico bugie. Con il lungomare più bello d'Italia (il secondo è quello di Viareggio) che salda ponente a levante in una luce inedita. I romani antichi vi avevano collocato il loro porto con Claudio e Traiano - non si dimentichi che Roma è sul mare - e il Duce aveva preteso l'Eur come trampolino per un ritorno al mare. Ci fu l'Ostia della bonifica dell'Agro romano degli anni Venti, con i ravennati che sapevano assai bene come trattare con bidenti e zappe la terra de «la bocca del fiume». Duilio Cambellotti fu l'artista delle rane, dei rospi, delle mandrie di bufale che, nei Trenta, vedranno la successiva bonifica dell'Agro pontino. Poi venne Ostia del Villaggio dei Pescatori; Ostia dei Cento Villini di Libera e Piacentini; e subito dopo gli stabilimenti balneari Adua, «Il capanno» fino al Kursaal che, nei Sessanta, insieme a Fregene, rappresentò La dolce vita al mare, oppure la succursale estiva di via Veneto. Vi sciamavano Anita Ekberg e Walter Chiari, Kirk Douglas e cento dive di quel mondo ruggente. A Ostia, sulla Rotonda, a due passi dalle onde, Claretta Petacci aveva raggiunto Mussolini in una specie di sfida automobilistica iniziata sulla via del Mare. Claretta si avvicinò al capo del fascismo, tutto di bianco vestito, e gli disse: «La disturbo, Duce?».

Ostia fu anche uno dei film più intensi e singolari dell'intera cinematografia italiana. Girato da Sergio Citti che costruì, dal mare, di fronte ai palazzoni degli anni Sessanta, una crocifissione nell'acqua amniotica e onirica. E proprio dietro a quei palazzi spettrali e bianchi come gigantesche vestali stuprate, Pasolini fu pestato a morte. Ma Ostia fu anche la bellezza di Castel Fusano, di Castel Porziano e fu la follia di «Er zagaglia»: un buco sulle dune dove andavano a fare i guardoni dei froci (poi trans) e dei vecchi pederasti Fellini, Parise...

Quando una notte volli sperimentare il viaggio sull'autobus notturno 80, che parte dalla stazione Ostiense e arriva a Ostia, doppiando le fermate della via Crucis, ebbi paura. Non si trattava di guardarsi le spalle e basta. La paura montava invisibile come la foschia della notte. Ostia cambiava come se quella saldatura di luce tra l'alba e il tramonto si andasse spegnendo dentro un grigiume e notti sfrenate di cocaina e movida brutale. Ma io Ostia continuo ad amarla. Da ultimo ne ho parlato per una trasmissione Rai quando, tornati indietro dalla spiaggia, l'intervistatore e l'operatore hanno trovato la macchina sfondata e i computer spariti.

Eppure Ostia può essere una città stato. Ha le risorse e il nome per fare da sé. Però ora è sulla bocca non solo di Suburra, degli ultimi vagiti della banda della Magliana. Ora è completamente sputtanata perché è pure diventata la mejo a tirare capocciate. Si sa che la capocciata in faccia all'avversario è il colpo dei colpi. Se non ci fossero le regole nel pugilato, la capocciata produrrebbe il ko perfetto. Rilancia la regola del detto: «Chi mena per primo mena due volte». La capocciata è anche il gesto di sfregio più «malandrino» che si possa ricordare in uno scontro selvaggio. Non solo colpisce l'avversario, ma non gli dà tempo di attrezzarsi per nessuna offesa e difesa. Infatti è accaduto che Roberto Spada, uomo del Clan degli Spada, abbia ricevuto a Ostia un reporter della Rai proprio con una capocciata.

Attenzione: non è la stessa che Zidane rifilò a Berlino al loquace Materazzi. Quella era una «testata» in petto. Quella di Ostia è, ripeto, una capocciata. Spero proprio che Ostia non si crocifigga definitivamente da sé come il grande Sergio Citti aveva con altre immagini predetto.

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