Hina Saleem. Quasi nessuno si è ricordato ieri di lei, eppure proprio erano dieci anni da quel terribile giorno che spense per sempre quegli occhi nerissimi e i suoi sogni di ventenne. A sgozzarla dopo averla colpita venti volte con la lama di un coltello il padre Mohammed, aiutato da due cognati dopo averla attirata in una villetta di Ponte Zanano, piccola frazione della bresciana Sarezzo, mentre arrivò anche uno zio a seppellirla nell'orto di casa con la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Una condanna a morte eseguita dal clan familiare che decise di punirla per aver scelto abiti e comportamenti troppo occidentali ed essersi fidanzata con un ragazzo italiano e per di più non musulmano, senza il permesso dei genitori. Genitori che proprio in quei giorni avrebbero voluto portarla in Pakistan a sposare lo sconosciuto che loro avevano scelto come compagno della sua vita.
Perché era nata in Pakistan Hina e da lì era arrivata quattordicenne nel Bresciano per raggiungere la famiglia. Erano ancora tempi in cui il Pakistan era considerato un Paese esotico e l'integralismo islamico non veniva vissuto come un problema per l'Occidente. E così anche quel martirio venne derubricato a fatto di cronaca nera. Qualche giorno sui giornali e poi, raccontava ieri Bresciaoggi, il silenzio interrotto soltanto dalla sconcertante sentenza della Cassazione che nel 2010 confermò la condanna a trent'anni del padre e a diciassette dei cognati. Spiegando però, contro ogni buon senso e contro ogni evidenza confermata dalla madre che aveva denunciato i comportamenti della figlia come non consoni al Corano, che quella barbarie non era stata commessa «per motivi religiosi e culturali», ma semmai per un «patologico e distorto rapporto di possesso parentale».
Come se un padre che prova gelosia per una figlia o non ne approvi il fidanzato, potesse trovare in questo sentimento seppur «distorto» la ragione per sgozzarla. E la radice di quell'orrore non affondasse proprio nella sharia, la legge islamica di Dio che diventa anche degli uomini. Un delitto d'onore ispirato dalla religione, come i troppi che oggi vengono derubricati in semplici casi di violenza domestica. Eppure in quel martirio c'erano già tutti i segni che un Occidente non accecato dall'ossessione di un imbelle politicamente e religiosamente corretto avrebbe dovuto cogliere. Il Pakistan come crogiolo di estremismo, l'islam come religione che prevede la pena di morte per omosessualità, adulterio e apostasia difficilmente conciliabile con lo Stato di diritto che governa la nostra parte di mondo.
C'era tutto perché Hina diventasse il simbolo delle donne violate da una religione che proprio su di loro esercita il suo volto più sadico e la sua ossessione a sottometterle. E invece no. Femministe zitte, sinistra muta. Pochi titoli, un processo concluso rapidamente e poi l'oblio. Nessuno a ricordarsi di lei. A farne l'occasione un sussulto d'orgoglio di un Occidente che deve segnare anche rispetto all'islam alcuni confini da cui non retrocedere. Per nessuna ragione. Civiltà si chiama, ma sembra che oggi in troppi siano disposti a rinunciarvi. A sacrificare sull'altare di un pensiero fattosi tragicamente debole quelle «vergini suicide», le troppe giovani che ancora oggi si uccidono per fuggire un matrimonio forzato. Anche di loro Hina sarebbe dovuta diventare la martire, la parola greca che significa «testimone».
Perché dall'islam non ci si può aspettare ravvedimento o moderazione.
Come ha dimostrato proprio ieri la mamma che, passata la rabbia dei primi momenti, ieri al Giornale di Brescia ha detto: «Ho perdonato mio marito e lo aspetto». Moglie prima che madre, ma sarebbe sbagliato giudicarla. È a noi che spetta gridare. Gridare che Hina non può essere morta per niente. A vent'anni, uccisa da una religione per aver troppo amato un uomo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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