Gioco di specchi

Spesso la politica italiana si trasforma in un gioco di specchi che confonde. Ecco perché in certi frangenti bisogna restare ai fatti

Gioco di specchi

Spesso la politica italiana si trasforma in un gioco di specchi che confonde. Nel Belpaese può succedere che Luigi Di Maio da leader dei descamisados si trasformi in un notabile democristiano e che, di converso, una personalità come Mario Draghi al di sopra delle parti, una riserva della Repubblica, alla fine decida, consapevolmente o meno, di indossare una maglia. L'epilogo finale di altri tecnici di valore come Lamberto Dini o Mario Monti.

Ecco perché in certi frangenti bisogna restare ai fatti. Dopo la decisione di Giuseppe Conte della scorsa settimana di aprire una crisi di governo, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini erano stati chiari: con un presidente del Consiglio che aveva deciso di dimettersi per il comportamento folle dei 5 stelle, rito Giuseppi, tutto si poteva fare meno che tenerli in maggioranza. Il problema non era Draghi, considerato da tutti una risorsa essenziale, e neppure il suo programma, semmai c'era la necessità di fronte alle tante emergenze di marcare una «discontinuità», di avere un moto di serietà rispetto al recente passato. Un atteggiamento responsabile non da poco per uno schieramento che aveva tutto da guadagnarci - visti i sondaggi - ad andare subito al voto. Una disponibilità espressa ancora ieri dal Cav sia al premier, sia al capo dello Stato. Un'offerta che, però, è stata del tutto ignorata.

Mario Draghi, infatti, ha deciso di andare avanti senza nessun chiarimento, senza nessuna verifica, senza porre un confine tra la sua maggioranza e chi aveva provocato una rottura insensata la scorsa settimana. Ha fatto un discorso duro con i grillini e la Lega, ma senza dare un profilo chiaro al suo governo, mettendo i partiti che lo avrebbero appoggiato nella prospettiva rischiosa di affrontare l'autunno caldo alleati sulla carta di un Movimento che avrebbe continuato a soffiare sul fuoco del disagio sociale (i 5stelle di Conte) e che avrebbe mantenuto una posizione ambigua sulla guerra in Ucraina (sempre i 5stelle di Conte). Insomma, il premier ha deciso di affrontare prove difficili senza liberarsi dei bischeri che gli avevano fatto del male. Roba da far tremare i polsi.

Ora, tutto si può chiedere a dei partiti, meno di trasformarsi in kamikaze. È un'attitudine che hanno solo Conte e i suoi adepti. Fino all'ultimo Berlusconi e Salvini gli hanno proposto di marcare quella distanza con i 5stelle, ma il premier ha preferito appoggiarsi sul Pd che ha sempre sacrificato la chiarezza all'esigenza di mantenere in vita la possibilità di riproporre alla vigilia delle prossime elezioni «il campo largo» con dentro i grillini. La vicenda poteva finire lì, il premier avrebbe potuto prendere atto dell'impossibilità di tenere in vita il governo di unità nazionale in queste condizioni e salire al Quirinale per dimettersi. Invece, Draghi ha forzato la mano, ha tentato un'operazione, appunto, di parte: ha messo la fiducia su una risoluzione presentata da una personalità come Pierferdinando Casini, eletto nelle liste del Pd.

Un'operazione voluta dal Quirinale e caldeggiata da Letta nel tentativo di mettere sullo stesso piano il centrodestra e Conte, di affibbiare anche a Salvini e Berlusconi l'immagine di irresponsabili, perseguendo già una logica elettorale. Insomma, ha seguito il consiglio di Mattarella, come Lamberto Dini quello di Scalfaro e Monti quello di Napolitano. Con tutta la stima, che resta intatta, politicamente un mezzo suicidio.

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