Ho denunciato la censura e Facebook mi ha bloccato

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul Giornale un pezzo che evidenziava come, nei social network, si stia imponendo una cultura dell'intolleranza

Ho denunciato la censura e Facebook mi ha bloccato

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul Giornale un pezzo che evidenziava come, nei social network, si stia imponendo una cultura dell'intolleranza. Insieme a moltissimi altri utenti di Facebook, infatti, ho ricevuto l'invito a segnalare chi tra le mie amicizie si stia spostando verso posizioni estremistiche: come se gli amministratori di un social possano definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e come se fosse una buona cosa invitare alla delazione.

Purtroppo, sembra che la multinazionale di Mark Zuckerberg non voglia modificare atteggiamento, né accetti logiche più liberali. Numerosi utenti, in effetti, hanno segnalato l'impossibilità di condividere sul loro profilo proprio questo articolo apparso sul Giornale; e tale vicenda non è un caso isolato.

Come molti hanno constatato Facebook sta usando in maniera sempre più aggressiva lo strumento del «blocco». Un mio amico, ad esempio, non ha potuto condividere alcune dichiarazioni del professor Giorgio Palù (presidente di Aifa) che sottolineavano come la variante Delta del virus per quanto se ne sa ora non sembri mostrare sintomi preoccupanti. E sono innumerevoli gli stop imposti a chi non gradisce i caratteri liberticidi del Ddl Zan o è scettico dinanzi ad altre parole d'ordine.

In una comunità politica in cui larga parte dello spazio pubblico è occupata dagli scambi di opinioni dei social, questa censura ispirata a un bigottismo progressista è allarmante. Entro le democrazie contemporanee l'opinione pubblica si definisce grazie a un aperto confronto tra tesi differenti, ma tutto ciò esige proprio quegli spazi di confronto che l'invadente gestione di Facebook stanno distruggendo.

Qualcuno potrebbe avanzare la tesi, non senza fondamento, che quella di Zuckerberg è un'impresa privata e se i suoi titolari vogliono discriminare alcune opinioni per favorire il successo di altre, sono liberi di farlo. Alla stessa stregua, le case editrici di sinistra legittimamente non danno spazio ad autori favorevoli al mercato e al pluralismo delle idee. Le cose, però, sono più complicate.

Le innumerevoli «censure» subite da quanti contestano il politicamente corretto hanno luogo entro un quadro istituzionale in cui, purtroppo, è sempre meno facile dire quanto Facebook oppure Amazon siano private oppure pubbliche. Il sistema regolatorio statale, in America come in Europa, è tale che queste grandi aziende possono essere in ogni momento azzoppate da chi detiene il potere politico e, al tempo stesso, possono ricevere da esso innumerevoli aiuti e favori. Entro tale situazione il rischio è che quanti gestiscono le aziende formalmente private dell'Occidente assomiglino sempre più agli oligarchi della Russia putiniana, del tutto dipendenti dall'autocrate formatosi nel Kgb.

C'è un modo per evitare tutto questo? Sì, ed è semplice. Queste grandi imprese devono sposare le ragioni della libertà e della tolleranza, smettendola di ergersi a paladini del «bene» e a censori del «male».

Non si capisce perché chi, nei dibattiti sul Coronavirus, ha citato dichiarazioni del professor John Ioannidis della Stanford University o di altri studiosi giudicati «eterodossi» abbia dovuto subire la sospensione del proprio account; e quello che è successo in materia di Covid-19 si è ripetuto secondo schemi analoghi in ogni altra discussione, come nel caso dei dibattiti sulle questioni di genere.

Se le grandi imprese vogliono essere considerate soggetti di mercato, autorizzate ad agire liberamente all'interno del proprio ambito, è bene che la smettano di essere la longa manus di chi controlla il potere politico.

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