Decessi, contagi e letalità. Parla l'infettivologo Matteo Bassetti

Intervista al prof. Bassetti: "La letalità è dello 0.5%, i contagi sono molti di più. Dobbiamo uscire dal tunnel della paura"

Decessi, contagi e letalità. Parla l'infettivologo Matteo Bassetti

Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, è uno che il Covid-19 l'ha visto da vicino e, soprattutto, lo ha combattuto, senza però cedere mai alla paura. Negli ultimi mesi, infatti, è apparso in televisione per parlare dei rischi di questa malattia, senza terrorizzare mai nessuno. Lo hanno definito (a torto) negazionista, ma lui (giustamente) non ci sta, come la professoressa Maria Rita Gismondo, che abbiamo intervistato ieri. "Sono mesi che mi sono preso delle botte di negazionista e di eretico. Sono schifato di questo mondo di gente che parla e che non ha mai visto il Covid. E che si permette di dare a me, che ho passato quattro mesi a curare la gente giorno e notte, del negazionista", ci ha detto il prof. Bassetti. Lo abbiamo intervistato.

Partiamo dai numeri. Non si riesce ancora a fare chiarezza: ad oggi quanti italiani hanno davvero contratto il virus? Senza questo numero, i decessi, che potrebbero anche essere di più, rischiano di fuorviare il nostro immaginario...

I numeri sono molto più alti. Ci sono diversi studi che hanno analizzato gli esami sierologici: uno è quello del ministero della Salute - che però è parziale perché sono stati presi in esame solo 70mila test contro i 150mila prospettati - e dice che il 2.5% della popolazione italiana è entrato a contatto con il virus. È chiaro che se prendiamo in considerazione questi numeri arriviamo intorno al milione e mezzo di persone entrate a contatto con il virus. Io credo che questo studio sia evidentemente sottostimato perché gli 80mila che mancano creano un bias fondamentale. Chi non ha partecipato? Chi era in alcune aree? È come fare un sondaggio con dati incompleti. Noi abbiamo fatto uno studio sierologico, prendendo cioè gli esami sierologici di chi era andato nei laboratori privati della Liguria e della Lombardia, ed escludendo le province ad alta epidemia (Bergamo, Brescia, Piacenza e Cremona). Abbiamo trovato una prevalenza dell'11%: vuol dire che l'11% di chi ha fatto il test aveva avuto un esito positivo.

Quindi la percentuale di morte deve essere ridotta?

Cambiano tutte le statistiche così. Se noi abbiamo cinque/sei milioni di contagi, la mortalità non è più del 12/15% come sembra oggi, ma dello 0.5%, che è decisamente più in linea con una malattia bruttissima, molto contagiosa e di cui avremmo volentieri fatto a meno, ma che non è così devastante come quando era stata disegnata a marzo o aprile. È una malattia che nel 99.5% dei casi non uccide, come molte altre malattie infettive. Anzi, magari tutte le malattie infettive avessero solo lo 0.5 o l'1% di letalità.

Se i numeri sono questi, come mai tutto il mondo pare essere "impazzito" di fronte alla pandemia?

Perché è arrivata un'infezione inaspettata che ha colto buona parte del mondo di sorpresa e che ha fatto un'escalation improvvisa: in due settimane ci siamo trovati gli ospedali pieni con molte persone che morivano. Tornare indietro ora non è facile: bisogna ricostruire le coscienze delle persone e spiegare loro che questa non è un'infezione come è stata disegnata all'inizio. La percezione è: ho preso il coronavirus e quindi sono morto. Oggi dobbiamo spiegare che non è così. Innanzitutto bisogna cercare di non prenderlo - usando le mascherine, il distanziamento, stando a casa se ho la febbre e vaccinandomi -, ma se per caso sono così sfortunato da prendere il virus, sono in un Paese in cui l'infezione è gestibile e ha una letalità che va dallo 0.5 allo 0.7%. Dobbiamo ricostruire le coscienze degli italiani e del resto del mondo, dicendo che, grazie a tutti i sacrifici che abbiamo fatto, l'infezione è decisamente più che in linea rispetto a quanto fosse sei mesi fa. La chiamerei "operazione costruzione coscienza".

Ma così non ha paura di passare per negazionista?

Sono mesi che mi sono preso delle botte di negazionista e di eretico. Sono schifato di questa gente che parla e che non ha mai visto il Covid. E che si permette di dare a me, che ho passato quattro mesi a curare la gente giorno e notte, del negazionista. Ho pubblicato 22 articoli sulle più prestigiose riviste del mondo, ho un gruppo di ricerca eccezionale e qualcuno mi dà del negazionista solo perché non avallo una linea di pensiero che non potrò mai appoggiare. Non posso condividere la linea di pensiero del terrorismo che dice alla gente che morirà di Covid e che siamo tutti finiti se non ci chiudiamo in casa.

Ad oggi pare che ci sia una una "infatuazione" della paura...

Certo, ma la paura fa male. Fa male non solo all'economia, ma anche alla medicina. Vedo gente che arriva terrorizzata e chi è terrorizzato è anche incontrollato. Non ascolta più perché la paura non ti fa ascoltare. Non ti ascoltano più quando dici di venire in ospedale solo se hai dei sintomi compatibili con insufficienza respiratoria. Questo è uno sforzo che io e pochi altri abbiamo cercato di fare in mezzo al mainstream del terrore. Non sarebbe stato forse più comodo che Bassetti si fosse in qualche modo adeguato al pensiero unico? Non è che lo sto facendo perché voglio fare il diverso, ma solo perché mi sono reso conto che questa è un'infezione da cui si può guarire. Un buon medico è quello che è in grado di instillare fiducia nel malato che ha davanti. Fa parte del giuramento di Ippocrate. I miei colleghi che fanno catastrofismo non aiutano nemmeno i loro pazienti. Credo si ottengano risultati migliori con toni pacati ed evitando il muro contro muro. Alla fine diciamo tutti le stesse cose, ma in maniera diversa...

Certo, è un po' andare in battaglia con dei comandanti che, anziché parlarti dei rischi, ti dicono già che sei spacciato. Ma è così che poi si perdono le battaglie.

Esatto, ma a me questo modo di fare non è mai piaciuto. Io sono stato orgoglioso di essere il capitano della mia brigata, che ha curato mille persone al San Martino. E neanche per un momento ho detto ai miei che i nostri pazienti sarebbero morti tutti. Anche se per un attimo ci ho anche pensato perché le cose non andavano benissimo. Ma non ho mai pensato di dire ai miei di dire che avremmo combattuto una battaglia che avremmo perso. Sembra però che a volte si goda ad esser pessimisti.

Torniamo per un attimo allo scorso marzo: cosa è andato storto? Il governo ha reagito troppo tardi o è stato eccessivo chiudere l'intero Paese?

Secondo me la reazione al problema è stata gestita molto bene. Le regioni, che poi sono quelle che hanno affrontato il problema, hanno reagito bene. Il governo ha dato delle linee di indirizzo più o meno giuste, ma poi sono stati i medici e il sistema sanitario nazionale, che è gestito dalle regioni, a reagire. E questo anche nelle tanto criticate regioni. Anche la Lombardia ha fatto un lavoro eccezionale perché ha aumentato i posti di terapia intensiva. Probabilmente qualcosa non ha funzionato - si è portata dietro il fardello di alcune scelte passate e forse è troppo votata all'eccellenza e a lavorare sul programmato - ma ha reagito bene. Sul lockdown i miei colleghi si sono già espressi e anche io, condividendo il pensiero del Cts: le scuole non andavano chiuse, almeno su tutto il territorio nazionale. Si potevano ottenere gli stessi risultati con lockdown più selettivi. Sono state chiuse regioni che non hanno avuto casi per mesi, come la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e la Puglia. Un lockdown serrato di tutte le attività, col senno del poi, credo che non sarebbe più da fare. Non è una critica politica. È una critica costruttiva: a marzo l'abbiamo accettato e lo abbiamo fatto. Ma mettiamo il caso che nei prossimi mesi dovessero aumentare i contagi e le persone in terapia intensiva: cosa dobbiamo fare? Certamente non un lockdown totale. Dovremo chiudere delle aree, ma mantendo le attività produttive, magari anche chiedendo agli anziani e alle persone fragili di restare in casa.

La Svezia, però, ha deciso un'altra strada: niente lockdown. All'inizio erano in molti a dar contro al governo svedese ora sembra che lo stiano rivalutando...

La Svezia non ha chiuso nulla e, alla fine, se si guardano i morti ogni centomila abitanti, ha ottenuto ottimi risultati. Poi, ovvio, la Svezia ha una densità di popolazione molto più bassa rispetto a quella italiana. È quindi forse più facile distanziarsi, quindi non può esser presa a modello. La Germania, più simile a noi, non ha chiuso le attività produttive. Ha chiuso alcune attività, ma noi abbiamo fatto un lockdown in cui abbiamo spento l'Italia. Oggi dovremmo ragionare in modo diverso, mettendo sulla bilancia rischi e benefici. Quali sono i rischi di un lockdown troppo duro? L'economia che va a rotoli e migliaia di malati di altre malattie di cui nessuno si occupa. Non ce lo possiamo più permettere.

Capire gli errori dei mesi passati potrebbe aiutarci a fare bene in autunno. Cosa dobbiamo aspettarci? Ci sarà una seconda ondata?

Io non la chiamerei seconda ondata, ma continuazione della prima perché a zero contagi non siamo mai arrivati. C'è sempre stato un po' di movimento e adesso c'è una ripresa. Abbiamo tanti casi di positivi asintomatici e pochissimi malati. in Italia oggi abbiamo all'incirca 50mila persone positive e 2mila ricoverati. Una percentuale intorno al 4%, molto meno rispetto a quanto succedeva a marzo e ad aprile, e 250 persone in terapia intensiva, quindi lo 0.5%. I numeri sono decisamente diversi. Cosa ci aspetta il prossimo autunno? Se noi avremmo l'attenzione di tracciare i nuovi focolai, e ne avremo tantissimi, dovremo enuclearli, magari inasprire alcune misure, e controllarli. Questo è quello che ci aspetta. Ma guardiamo anche quello che è successo in Australia, inverno 2020: casi di influenza zero e nessuna seconda ondata di Covid. Probabilmente, se usiamo bene le misure (mascherine, distanziamento etc...), avremo un autunno/inverno tranquillo. Certamente avremo dei ricoveri, ma abbiamo mai dato il bollettino per i ricoveri di influenze, polmoniti pneumococciche? Diventa anche una conta ferale. "È andato in terapia intensiva" non vuol dire nulla. Ci vanno perché hanno la polmonite? Perché hanno la febbre? Oppure per altre patologie? La gente non sa neanche cosa voglia dire "andare in terapia intensiva". Si parla del Covid come se si parlasse di un calcio d'angolo. Siamo arrivati a questo punto. Abbiamo dato in pasto alla gente delle espressioni che non comprendono. Dovremmo tornare a fare un tipo di comunicazione una volta alla settimana per spiegare come vanno le cose e, se c'è un problema, lo si spiega. Altrimenti sono dati da e per i medici. Abbiamo mai dato i dati di quanta gente ha un infarto in un giorno? Abbiamo avuto un momento terrificante e ora dobbiamo fare il possibile per uscirne. Anche parlandone meno.

Cosa ci dicono i numeri in Spagna, Francia e Regno Unito?

In Francia c'è un importante numero di contagi. Ma lì fanno anche un milione di tamponi alla settimana, molto più di noi. Devono guardare a casa loro, dove ci sono i problemi. Se guarda i ricoveri e i decessi, però, non mi pare che la situazione sia preoccupante. La Spagna ha un aumento di ricoveri. Ma perché noi italiani non guardiamo dove le cose vanno bene, ma solo dove vanno male? In Germania le cose non vanno male, come in Svizzera, in Austria o in Slovenia. E sono Paesi molto vicini a noi. In Olanda le scuole sono aperte da un mese e non è successo nulla. Guardiamo a questi Paesi e anche a noi, dove le cose vanno bene. Abbiamo il 2% di tamponi positivi. Io credo che si sia pensato che se si terrorizza la gente si ottiene più facilmente l'applicazione delle misure. Balle.

Il Covid-19 è davvero mutato? È giusto dire che è più buono?

Non so. In una certa fase, certamente sì. Sono state dimostrate anche mutazioni del virus in bene. Ma minor aggressività e letalità sono dovute al fatto che siamo diventati più bravi e che curiamo meglio. Oggi la malattia, sia perché è cambiata sia perché noi siamo più bravi, è molto meno letale.

Quali saranno le pandemie di domani?

Noi avremo sicuramente altre pandemie. Solo chi ignora la materia può pensare che non ci saranno. Abbiamo avuto in passato problemi con la febbre del Nilo e con la Zika. Ne avremo altri, ma dobbiamo imparare a tenere sempre un sistema organizzato. Avevamo probabilmente disinvestito troppi soldi nella sanità, non avevamo un piano pandemico e i risultati si sono visti. La colpa non è del governo, ma di chi ha continuato a tagliare e a non investire nella prevenzione delle malattie infettive. E così ci siamo trovati nella condizione di non avere un piano pandemico. Dobbiamo in futuro non commettere più gli stessi errori. Quando passerà questo problema, ci si dovrà sedere attorno a un tavolo per pensare gli ospedali del futuro.

Un nostro lettore, riprendendo un articolo del New York Times sull'ipersensibilità dei tamponi, vorrebbe sapere "perché si continua a non tenere conto di ciò e a fare screening di massa su asintomatici che producono ogni giorno un numero di cosiddetti 'casi', che andrebbero invece verificati clinicamente uno ad uno".

Il problema è che, purtroppo, anche chi non trasmette il virus potrebbe avere un tampone positivo. Abbiamo tamponi in cui le persone hanno il tampone che viene considerato positivo senza che siano in grado di trasmettere il virus. Positivo, non misurando la carica virale, non ci dice se è contagioso o meno.

Un altro lettore chiede: "Considerato che il vaccino antinfluenzale è formato con le possibili influenze incontrate negli anni precedenti e non copre tutte le influenze, e, quindi, come già successo ci si può ammalare comunque, vale la pena di vaccinarsi solo perché come è stato detto, così si distingue il Covid? E conviene che un immunodepresso si vaccini? e qual è il periodo migliore per vaccinarsi, visto che gli anticorpi prodotti dal vaccino tendo a scomparire nel giro di uno due mesi?".

Il prima possibile, appena arriveranno i vaccini, dopo il 5 di ottobre.

E questo per due ragioni: circola meno virus influenzale e, in questo modo, si aiutano i medici a capire se si tratta di Covid oppure no. E poi perché non sappiamo cosa potrebbero rischiare i nostri pazienti nel caso in cui dovessero essere colpiti nello stesso momento da influenza e Covid. Il rischio è di una miscela devastante.

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