Preceduto da un lungo articolo pubblicato sul Financial Times dai contenuti alquanto discutibili oltre che non molto informato, venerdì in Piazza Affari a Milano è andato in scena l'ultimo tentativo di riorientare il Ddl Capitali, il progetto che mira a restituire al mercato italiano l'appeal sottratto da Paesi - l'Olanda in particolare - che vantano legislazioni più favorevoli.
A promuovere l'incontro l'Associazione delle società per azioni italiane (Assonime) che ha come obiettivo lo studio della vita delle aziende. Impostato con lo scopo di dibattere attorno ai principi della corporate governance portati avanti dall'Ocse, l'incontro si è presto trasformato in occasione per tentare di smontare ciò che governo e Parlamento hanno di fatto già approvato in materia di voto multiplo e soprattutto di formazione della cosiddetta lista del cda. Con un regista nemmeno tanto occulto: Mediobanca, l'istituto che ha il maggiore interesse a mantenere le attuali prerogative del management in un processo di auto perpetuazione condivisibile solo da chi ne è gratificato. Infatti, se si esclude l'invito al governo di «procedere nella giusta direzione» lanciato dalla presidente di Assonime, Patrizia Grieco, e la difesa della proposta da parte del sottosegretario all'Economia Federico Freni, è stata una sequela di critiche sostanzialmente su un unico punto: i meccanismi di formulazione della lista del cda.
Così, Carlo Trabattoni - che parla quale presidente di Assogestioni, l'associazione che rappresenta il mondo dei gestori di fondi e patrimoni - come un San Michele Arcangelo impegnato nella lotta contro il demonio, a termini ormai scaduti chiede di riaprire il confronto sul disegno di legge a un passo dal varo «perché alcuni emendamenti approvati creano disequilibri e incertezze interpretative, in particolare sui diritti di voto multipli e sulla disciplina della lista del cda». Ma a quale titolo parlava Trabattoni? Come presidente di Assogestioni, sulla cui efficienza operativa e indipendenza ci sarebbe molto da dire, oppure quale ceo di Generali Investiments che, come ormai arcinoto, appartiene a un gruppo legato a doppio filo alle determinazioni di Mediobanca? Noi ricordiamo un Trabattoni gran capo di Schroders, professionista molto stimato, che non esitava a condannare i conflitti di interesse. Ma si sa, col tempo si diventa molto più flessibili.
Curioso poi l'allarme lanciato da Giovanna Gallì, executive del gruppo Spencer Stuart, che come una novella Cassandra avverte che le nuove norme faranno sì che nessuna lista del cda verrà più presentata «perché nessuno accetterà di farne parte non avendo la certezza di essere eletto», senza rendersi conto che in questo modo dimostra plasticamente che sono le dinamiche attuali a garantire la perpetuazione del potere manageriale sulle aziende che danno ai candidati in lista la certezza di essere eletti. Ma a parte questi sofismi da giurisperiti, anche in questo caso ci sarebbe da chiedersi se il punto di vista della Gallì-Cassandra non sia in qualche modo condizionato dal fatto che Spencer Stuart ha assistito Mediobanca nella compilazione della propria lista del cda.
E si potrebbe proseguire guardando a un'altra voce critica emersa dal convegno, quella di Andrea Vismara, ceo di Equita, la sim cui Mediobanca e Generali hanno affidato la raccolta di titoli nelle recenti tornate assembleari. Infine, ma non certo per ultima, la voce di Luisa Torchia, componente del cda della compagnia triestina, dove è stata nominata grazie a cosa? Beh, diciamolo, grazie alla lista del cda e ai suoi meccanismi (la sicurezza dell'elezione, ricordate?), messi a repentaglio dal voto individuale sui candidati singoli che, previsto in tutti i sistemi nei quali la lista del cda è in uso, da noi «può essere un trapianto che non funziona bene».
In mezzo a questo diluvio di conflitti d'interesse passa quasi inosservato il fatto che il convegno Assonime fosse sponsorizzato proprio dalle Generali.
Resta una curiosità: perché tanto arrocco sulla lista del cda, se un manager è sicuro di sé e del proprio progetto? Quale azionista sarebbe così miope da voler cambiare il capo azienda che ha portato la società a toccare le vette più alte? Domande retoriche, che hanno in sé la risposta.
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