Confesso di essere nato a Bergamo, questo mi rende di parte. Ma è una bella parte, la migliore che ci possa essere. Adesso è fin troppo facile dirlo e vantarsene, dopo che Il Sole 24 Ore, adottando parametri certificati dalle maggiori università del pianeta, ha eletto la mia città e la sua meravigliosa provincia al primo posto in Italia per qualità della vita. Provate a passare da Bergamo o dalle cittadine e i borghi spersi tra valli e pianura, in un giorno feriale. Fermatevi in piazza. Intorno tutto fila in ordine, i furgoni, le auto, i Tir. Poi puntano verso le autostrade riempiendo quattro o cinque corsie. Le persone a piedi vanno svelte. La spesa, le commissioni, gli insegnanti, i medici e gli infermieri non bighellonano ma sono già in corsia dall'alba, nessuno aggredisce i camici bianchi nei pronto soccorso. La gente è chiusa, rustica, ma è capace di organizzarsi evitando chiacchiere che scombinino e frenino l'armonia (quasi) silenziosa di pulegge e cilindri, braccia e teste. Le persone hanno le serrande abbassate ma le botteghe artigiane, gli studi di ingegneri e cervelli fini, le fabbriche medie e grandi sfornano merci di genialità leonardesca ad alta tecnologia che finiscono per essere la spina dorsale dei macchinari germanici.
Il fatto è questo: non c'è neanche un disoccupato, semplicemente perché nessuno ha voglia di esserlo, non esiste in natura il disoccupato bergamasco, ed è una malattia contagiosa quella del lavoro.
Il lavoro non abbrutisce l'uomo, non lo disarticola rendendolo inabile a godersi la vita, ma ne è la premessa e la ricetta vincente anche per l'arte e lo sport. Il lavoro prepara il piacere, anzi è esso stesso piacere, incoronato qui dalla gloria dell'Atalanta, ad esempio.
Chi ritiene l'arte del cross e del gol, figlia della pigra atmosfera delle sdraio e dei mandolini è stato spianato come la pasta per la pizza dalla fantasia che sgorga dal lavoro di squadra. Gasperini non è di Bergamo, e neppure lo è Lookman che è nero e neanche De Ketelaere il quale mai in vita sua mangiò polenta, ma qui hanno trovato sé stessi. Forse è la bellezza dell'architettura veneziana del Borgo Alto, o un certo tono di verde che non c'è neanche nello smeraldo, ma siamo in testa al campionato, non è roba da provincetta, ma è l'equivalente calcistico di Donizetti nell'arte, di Papa Giovanni nella religione e di Gimondi nel ciclismo. L'incarnazione femminile di Bergamo è Sofia Goggia, che è nata qui, e porta dentro una capacità di resuscitare figlia della capacità di non lasciarsi schiacciare dal dolore. Si era spaccata rovinosamente le gambe, mille pezzettini, la davano per spacciata, niente Olimpiadi del 2026 a Bormio della neve, dietro le montagne di casa sua. Senza piagnistei davanti agli altri, ma nel buio della fisioterapia chiusa in una stanza, mostrando allegria fuori, arriva e vince. Stupefacente seconda in coppa del mondo nella discesa libera, prima nel super-gigante, a velocità ipersonica, con una faccia di pietra per nascondere il timore di dentro, ma sprizzando gioia di fuori. Non la mena con l'elogio del proprio coraggio: lo sa lei e basta. Lavora e ammazza tutti.
Scrissi la stessa cosa quattro anni fa, quando, con il cuore trafitto dal dolore e dal senso di colpa per non essere stato anch'io falciato dalla pestilenza tra quei vecchi morti che, arrivati alla canizie, lavorando e soltanto lavorando, erano stati deposti nelle bare, senza avere nessuno accanto, seppelliti senza che i preti facessero in tempo a suonare la campana, non c'era lo spazio neppure per un rintocco, tanto lunga era la lista dei requiem, e neanche le fosse hanno avuto. Ricordate? Ma sì. La mia amata Berghem, la Val Seriana e la Val Brembana orobiche ebbero il primato assoluto delle vittime non solo valevole per l'Italia ma per il mondo. Dissero che ce l'eravamo cercata: il capitalismo, lo sfruttamento, lo scarso peso dato al valore della persona, un popolo fesso che gira il mondo per spartire con altri popoli le sue pregiate merci, il tifo calcistico sconsiderato, persino l'assoluto primato dei nostri ospedali che avevano accolto i malati invece di cacciarli a casa, un errore, ma con il senno di poi sono bravi tutti. Ma ci fu imputato, todo todo todo ci aveva meritato una maledizione per l'eternità. Eternità mica tanto: rieccoci in cima.
Bergamo e la Bergamasca erano in ginocchio, forse per pregare meglio. Solo piegandosi fino a terra poi ci si può tirare su. Fecero lo stesso i giovani alpini e i veci, quelli che d'estate vanno in Africa con gli ultrà dell'Atalanta a scavare pozzi e costruire scuole per i villaggi dove sta il parente missionario da trent'anni in Kenia, Mozambico, Burundi. Si riposa lavorando.
Penso in bergamasco, e questo è un guaio perché poi mi tocca tradurre, e si perdono le sfumature. Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante.
Mi riconosco in ogni orobico, che si riconosce in un detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Cioè: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Eravamo cinquantesimi in graduatoria tre anni fa. Adesso primi. Mai molà, scet!- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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