Nessun alibi ai partiti. Il piano del premier

Lunedì sera, appena rientrato da Algeri, l'umore era sì piuttosto cupo, ma la sensazione era anche che il premier stesse ragionando più sul "come" che sul "se"

Nessun alibi ai partiti. Il piano del premier

Lunedì sera, appena rientrato da Algeri, l'umore era sì piuttosto cupo, ma la sensazione - soprattutto di alcuni dei ministri che hanno preso parte alla missione in Algeria - era anche che il premier stesse ragionando più sul «come» che sul «se». E questo al netto dell'irritazione e della delusione, non solo verso Giuseppe Conte, ma nei confronti dei partiti del centrodestra. Troppo forte, infatti, il pressing per restare alla guida del governo. Quello che rimbalza su agenzie e giornali ormai da quattro giorni, ma anche quello sottotraccia delle grandi diplomazie, a partire da Washington. L'impressione, insomma, era - anche ieri di prima mattina - che si stesse lavorando a un punto di caduta comune, anche perché lo stesso Conte - per quanto si sia appassionato alla sua nuova versione dibbattistiana - ha avuto interlocuzioni simili a quelle dell'ex banchiere (ma ovviamente opposte) e pareva aver finalmente realizzato che se davvero il governo salterà per colpa sua è destinato a portarsi dietro l'etichetta di «inaffidabile e irresponsabile» per molti anni a venire. Pareva. Perché dopo aver cambiato posizione sulla fiducia tra le cinque e le dieci volte durante l'arco della giornata, sembra sia andato a dormire abbracciando la tentazione di votare «no» e passare all'opposizione. Oggi in Senato, finalmente, scopriremo se farà il suo personale Papeete e - forse - lo scoprirà anche lui. Che ieri, ancora alle dieci di sera, non aveva avuto alcun contatto diretto con Draghi, a differenza del Pd la mattina e del centrodestra a sera.

E qui sta un altro passaggio critico della giornata. Perché il fatto che alle dieci Enrico Letta abbia varcato il portone di Palazzo Chigi per un faccia a faccia con il premier ha fatto esplodere la miccia. Abbiamo chiesto una verifica e con una crisi in corso Draghi sceglie di confrontarsi solo con il segretario dem. In effetti una sgrammaticatura istituzionale, tanto che alle sette di sera - sollecitato anche da Sergio Mattarella, che incontra al Quirinale in tarda mattinata - l'ex Bce alza il telefono e chiama Silvio Berlusconi, riunito con Matteo Salvini, Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa nella sua residenza romana. Passa una mezz'ora e i leader del centrodestra di governo (per Forza Italia non c'è il Cavaliere, ma Antonio Tajani) si presentano a Palazzo Chigi per un faccia a faccia con Draghi di circa un'ora. Un confronto complesso, perché l'ala governista di Forza Italia e Lega viene tenuta in disparte. Tanto che i ministri azzurri Renato Brunetta, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini ci tengono a invitare il centrodestra al «buonsenso» perché «i cittadini non capirebbero».

Insomma, una giornata lunghissima. E che sarà probabilmente seguita da una notte altrettanto complicata. Di certo, quando Draghi lascia Palazzo Chigi con Conte non c'è stato alcun contatto diretto. Il che sarebbe un segnale eloquente della piega che sta prendendo la crisi. Al netto, ovviamente, di possibili ripensamenti notturni, visto che il leader del M5s si sta dimostrando piuttosto ondivago. Insomma, scopriremo solo oggi in Senato se, come sembra a tarda sera, lo scenario a venire è quello di una nuova scissione del M5s con Conte all'opposizione insieme al suo manipolo di eroi barricaderi. Quelli che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, poi si sono alleati con la Lega (Conte 1), dopo con il Pd (Conte 2) e infine con tutti insieme compresi Berlusconi e Matteo Renzi (Draghi). Di certo, a ieri sera tardi, l'impressione che filtrava da Palazzo Chigi è quella di un premier che non vuole dare alibi a nessuno. Non all'ex autoproclamato avvocato del popolo, ci mancherebbe. Ma neanche al centrodestra, dove c'è un pezzo fortemente tentato dalle elezioni anticipate. Allo stesso modo, non vuole essere lui a passare per quello che fa saltare il banco pur avendo - a prescindere da quanti rimarranno con Conte - un'ampia maggioranza. Il gioco del cerino, infatti vale per tutti. Anche per l'ex numero uno della Bce. Che dalle tre versioni del discorso messe in cantiere lunedì, ieri sarebbe passato a due. Uno per cercare di rilanciare le larghe intese, un altro per dettare un'agenda di 4-5 punti centrali (messa in sicurezza del Pnrr e della sessione di bilancio e alcuni punti dell'agenda sociale, a partire dal cuneo fiscale) e che darebbe poche sponde a Conte. A quel punto, dunque, la direzione sarebbe quella di un governo senza il M5s. Che dopo la scissione di Luigi Di Maio è destinato a perdere altri pezzi, soprattutto domani alla Camera. Ecco perché l'idea è quella di evitare un complicato Draghi bis che si porterebbe dietro molte lungaggini e riaprirebbe la riffa di ministeri e sottosegretari. Semplicemente il premier sostituirebbe i ministri grillini che si dimettono (a ieri sera, pare solo Stefano Patuanelli).

Se invece il dibattito al Senato dovesse prendere una brutta piega, Draghi potrebbe sempre decidere di salire al Quirinale dopo le repliche, senza lasciare spazio al voto di fiducia. E a quel punto la parola passerebbe definitivamente a Mattarella.

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