Il (non) diritto di veto

Più di vent'anni fa scrissi un editoriale su La Stampa dal titolo "I centauri", per descrivere quei magistrati che ambiscono con i loro comportamenti ad avere anche un ruolo politico

Il (non) diritto di veto
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Più di vent'anni fa scrissi un editoriale su La Stampa dal titolo «I centauri», per descrivere quei magistrati che ambiscono con i loro comportamenti ad avere anche un ruolo politico. Mi querelò l'intero pool di Mani Pulite, Ilda Bocassini compresa. Persi. All'epoca toga non mordeva toga. Mesi dopo Antonio Di Pietro entrò in politica. E non si contano le inchieste del pool che hanno condizionato la nostra storia.

Ma cosa significa per un giudice svolgere un ruolo politico? Per averlo non bisogna fondare per forza un partito. Anzi, da quel punto di vista Di Pietro è stato trasparente: ha appeso la toga ad un chiodo ed è entrato in Parlamento. Molto peggio è aver la pretesa di fare in un modo o nell'altro politica indossando ancora la toga. E, diciamocelo francamente: condizionare il Parlamento nelle sue scelte, immaginare di avere un diritto di veto su una riforma della giustizia significa assumere una funzione politica. Perché, magari lo abbiamo dimenticato, i magistrati debbono applicare le leggi, non scriverle. Questo è un compito che spetta esclusivamente al Parlamento espressione del popolo.

Invece, a leggere in controluce l'uscita dell'altro giorno dell'Anm e del suo presidente, si arriva a dire che la riforma della giustizia è sbandierata dal governo «come punizione della magistratura». Un giudizio che solo per gli orbi non ha una valenza politica. Né i magistrati - per il delicato compito che svolgono - possono dire «sì» o alla separazione delle carriere tra giudici e pm o bocciare la proposta del governo di abolire l'abuso d'ufficio. O meglio possono dire la loro quando sono convocati dal Parlamento, ma non bombardare l'opinione pubblica con interviste e prese di posizione, magari arrivando a dire che l'abolizione dell'abuso d'ufficio favorisce la corruzione, perché è un modo per intervenire nel processo legislativo. Sono giudizi che esulano dalla loro funzione, perché dire «no» significa collocarsi all'opposizione del governo che propone la riforma e, quindi, nei fatti, assumere una posizione politica. Se poi alle critiche sprezzanti si accompagnano tre giorni in cui alcuni esponenti del partito di maggioranza relativa finiscono nel mirino della magistratura, non può non sorgere il dubbio che una parte delle toghe abbia assunto il ruolo di supplenza di un'opposizione incapace. Dubbio che gli ultimi decenni di storia patria trasformano in un sospetto.

La verità è che lo scontro tra governo e magistratura nasce dalla pretesa delle toghe di poter esercitare una sorta di diritto di veto quando il Parlamento legifera in materia di giustizia. L' atteggiamento che negli ultimi trent'anni ha bloccato ogni ipotesi di riforma seria del nostro sistema giudiziario. Eppure tra gli illeciti disciplinari previsti nell'operato di un magistrato c'è anche «l'uso strumentale» del proprio ruolo «diretto a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste». In primo luogo il Parlamento.

Nella seconda Repubblica ci sono stati tanti proclami da parte delle toghe, contro infinite proposte di legge, ma questa norma non è mai stata applicata. Tanti proclami. Sicuramente troppi. Visto che ormai non suscitano più nell'opinione pubblica conati di giustizialismo.

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