Parlare della guerra in Ucraina a una bambina

Come spiegare a una bimba di sette anni il male che c'è nel mondo? Dopo due anni di Covid la decisione (difficile) di parlare della guerra che affligge il popolo ucraino

Parlare della guerra in Ucraina a una bambina

Per giorni non lo abbiamo affrontato. È rimasto lì, come un oscuro demone da domare. Poi una sera, io e mia moglie abbiamo deciso. Abbiamo deciso di non parlare della guerra in Ucraina alle nostre figlie. Per la più piccola, che ha da poco compiuto quattro anni, la scelta era tutto sommato scontata. Per la più grande, che invece a ottobre ne compirà otto, no. Il tentativo di preservarla in questa bolla, però, è durato un pugno di giorni e soprattutto la primogenita si è trovata davanti alcuni compagni di classe che durante l'intervallo si sono messi a giocare alla guerra.

La preoccupazione che qualcun altro raccontasse loro quanto sta succedendo, ce l'avevamo sin dall'inizio. Non tanto attraverso i tiggì (la tivvù è ormai settata acca-ventiquattro su due canali, Disney+ e Netflix, che si alternano sistematicamente). Piuttosto la quotidianità. Era inevitabile che, presto o tardi, si schiudesse quell'orrore che parla di morte e distruzione, famiglie divise e bambini abbandonati, bombardamenti sulle case e scuole rase al suolo. Il problema, però, resta. Come si può spiegare la guerra (edulcorandola) a una bambina che si vanta di aver visto I fantastici 4 ma che, dopo un film di Harry Potter, non va a letto poi tanto tranquilla? Quali parole si possono usare per raccontare che un giorno di febbraio un tizio ha deciso di rompere la routine di un mondo ancora frastornato dalla pandemia mandando centinaia di carri armati a invadere un altro Paese; che da quel giorno hanno iniziato a piovere bombe giorno-e-notte su tante città; che ogni giorno si contano decine e decine morti (da una parte e dall'altra) e che ce ne saranno ancora e ancora, almeno finché uno dei due non avrà alzato bandiera bianca; che i papà sono rimasti a difendere la propria casa e che hanno messo al sicuro le mogli, i figli e i nonni mandandoli lontano-lontano; che tutto questo potrebbe ricadere sul tenore di vita della nostra famiglia (hai in mente quando papà brontola dal benzinaio?) ma anche che non preoccuparti, sta succedendo lontano da qui, non preoccuparti?.

Due anni fa, quando scoppiò il Covid-19, decidemmo di essere aperti sin dall'inizio. Tornati dalla settimana bianca di Carnevale, le ultime sciate a Champoluc prima del lockdown, le scuole erano già tutte chiuse più o meno a tempo indeterminato. Al tempo, la nostra primogenita aveva appena compiuto cinque anni e frequentava l'ultimo anno della materna. Le avevamo parlato, annaspando nel vortice di informazioni che i primi mesi di pandemia stavano producendo, di un virus nuovo (no, non è quello che fa venire il male alla gola o il male alle orecchie). Un virus di cui gli scienziati non conoscevano granché e che, essendo molto contagioso, bisognava assolutamente stare chiusi in casa. Non è stato affatto facile spiegare a una bambina così piccola che il mondo fuori dalle mura domestiche è pericoloso; che basta un bacio o un contatto per prendere qualcosa di brutto (qualcosa di invisibile); che bisogna andare in giro con la mascherina (che, per quanto colorata, era un impedimento al dialogo); che i nonni era meglio non abbracciarli e tantomeno baciarli; che con gli amici mi raccomando giocate, ma non troppo vicini, che lavati le mani e non metterle mai in bocca; che comunque prima o poi sarebbe tutto finito. Sì, ma quando?

Ecco: quel "quando?" è arrivato giusto qualche settimana fa, subito dopo la mega ondata di contagi da variante Omicron. Ne avevamo parlato a tavola fantasticando su cosa si sarebbe potuto fare in estate. Avevamo dato per certo che il Covid aveva ormai i giorni contati e che tutto sarebbe tornato come prima. La più piccola ci aveva guardato interrogativa: come prima quando? Per una bimba, che aveva appena due anni quando è scoppiata la pandemia, la normalità è fatta di smart working, mascherine e tutto il resto. Ma tant'è. Inutile divagare. Pandemia in soffitta, si torna alla vita di prima. Si fa in fretta a dimenticare il male, anche se poi te lo porti dentro per sempre. E, proprio mentre facevamo i conti con la fine dello stato di emergenza, ecco la variante Vladimir. Prima il riconoscimento del Donbass, poi l'invasione. I bombardamenti, la minaccia nucleare (vera o no, toglie comunque il sonno), l'escalation diplomatica che ha riportato il mondo ai tempi della Guerra Fredda (roba da libri di Storia), i rifugiati (migliaia e migliaia di rifugiati).

Come lo spieghi tutto questo a una bambina di sette anni?

Di guerre, nel mondo, ce ne sono tante. Lo stesso problema probabilmente non ce lo saremmo posti anni fa quando è scoppiata la guerra in Siria o ancora prima quella in Libia. Kiev è così vicina a Milano da rendere quasi obbligatorio alle coscienze occidentali farci i conti. E anche questo andrebbe spiegato. Perché, se con una bambina affronti un problema, devi anche spiegarle perché lo stai facendo. Lei sa benissimo che, se hai deciso di affrontarlo (lo capisce dal tono di voce, dalla solennità con cui lo affronti, dalla rottura rispetto alle conversazioni quotidiane), non è certo un pourparler ma un punto su cui deve fissare la sua attenzione. Ma per cosa? A cosa le serve? A capire che il male fa parte della vita? E così, quando lo fai, non puoi che rimanere spiazzato perché il concetto di "invasione" non è così semplice da spiegare. "Non bastava che chiedesse agli altri di poter entrare?", ci ha domandato. "No, non lo ha fatto". Per i bambini la soluzione è sempre semplice, per gli adulti no. I bambini, le cose, le aggiustano. Gli adulti, solitamente, le mettono insieme per romperle.

Negli ultimi giorni mia moglie si sta impegnando con un'associazione che aiuta i profughi ucraini. E così capita che passi le serate attaccata al cellulare per organizzare chi deve andarli a prendere in stazione, come metterli in contatto con la famiglia che li accoglie e dove consegnare i pacchi di vestiti. Anche il tema dell'accoglienza è venuto fuori. Prima a scuola e poi, inevitabilmente, a casa. E, per quanto si cerchi di motivare il bene, è pressoché impossibile spiegare che al mondo esistono famiglie che devono lasciare la propria casa per evitare di morire. Questo, agli occhi di un bambino, fa ancora più paura delle bombe.

Le bombe, d'altra parte, non le ha mai viste, nemmeno in tivvù. La sua casa, invece, ce l'ha ben presente. E la sola idea di poterla perdere perché un tale ha deciso di mandare i carri armati a invaderti, lo afferrerebbe al volo e non lo libererebbe più.

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