R oberto Gervaso. Trecento papillon, cento cappelli («tutti Borsalino, li porto sempre. Un po’ per proteggermi, un po’ per vezzo»), duecento donne amate («tu selezioni molto? Io per niente: ho preso di tutto nella vita, duchesse e commesse, miss e bruttine, anche una teologa, anche una zoppa, anche una balbuziente che ritrovava la parola solo a letto...»), una moglie bellissima («che in un momento di distrazione si è invaghita di me»), una figlia («fa la giornalista...»), tre nipoti («è come avere l’Isis in casa»), quattro case tra Milano, Palermo, Roma e la campagna romana - dove passa l’estate e lo incontro - un domestico filippino che canta magnificamente i Platters, un formidabile elenco di malattie («ne ho avute tante, ora ne ho ancora di più»), un Himalaya di medicine sparse per la villa («vuoi qualche goccia di Lexotan?»), tre depressioni devastanti («a 23, 34 e 70 anni, in tuttomi hanno portato via dieci anni di vita»), una vita vissuta «in uno stato diinquietudine perenne», sessant’anni di carriera tra quotidiani, settimanali, radio e tv, duemila interviste entrate nella storia del giornalismo, 25mila aforismi usciti dalla sua intelligenza, 52 libri pubblicati («più uno in arrivo, a ottobre, un pamphlet sulla storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo, titolo: Che palle!») e ottant’anni compiuti, domani. Auguri, Robertino. «Robertino mi chiamava Montanelli. Gli devo tutto: andai apposta a Roma per conoscerlo, ilmio regalo della "maturità", era il ’56, quando leggevo e ritagliavo tutti i suoi pezzi. Mi prese a ben volere: mi fece entrare al Corriere d’informazione, poi al Corriere della sera, mi fece scrivere con lui sei volumi della Storia d’Italia, per la quale mi associò - per i diritti d’autore - al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15... A proposito: sai quanto abbiamo venduto? Diciottomilioni di copie... Comunque. Mi ha aiutato a diventare inviato, per anni mi ha ospitato a casa sua o al ristorante a colazione, mi ha insegnato tantissimo in questo mestiere. Mi voleva così bene...».
Che a un certo punto iniziò a girare la voce che tu fossi suo figlio.
«Aveva 28 anni più di me, ero magro come lui. Ci stava... Io l’ho sempre trovata una cosa divertente».
E lui?
«Con lui non ne abbiamo mai parlato. Però una sera mia moglie fece una cena, a Palazzo Visconti, a Milano. Una cosa sontuosa. C’erano tutti quelli che contavano, per capirci. A un certo punto si avvicina al mio tavolo Maria Gabriella, la figlia di Maria José, l’ultima regina d’Italia, con la quale Montanelli ebbe una relazione, si conobbero a Cortina... Insomma, guardando mia moglie, mi abbraccia e dice: “Ecco Roberto, mio fratello...”. Ci scherzava anche lei sul fatto di essere figlia di Indro. Nel suo caso può essere. Nel mio, una cosa su cui ridere. Come ho sempre fatto: su tutto».
La vita è una commedia?
«Che finisce in tragedia. Ma che ha momenti farseschi e altri drammatici».
Hai avuto tanto dalla vita.
«Ma ho dato tutto. Ho voluto fortissimamente il successo, per ambizione e per vanità, però ho pagato fino all’ultimo centesimo. E con la moneta più pesante: la salute. Forse è giusto così. Se dovessi scegliere una religione...».
Ma se sei ateo...
«No. Deista, agnostico, laico, scettico, un po’ cinico. Ma non ateo».
Continua. Se dovessi scegliere una religione...
«Sceglierei il buddismo. Dalla vita riceviamo tutto ciò che le diamo. Il paradiso non lo so. Ma l’inferno lo scontiamo in terra. Lo sapevano bene il dottor Schweitzer o madre Teresa di Calcutta... Ecco. Tornando indietro, farei il missionario. Ma lo dico oggi, a ottant’anni. Quando ero giovane mi mancava la vocazione.Meglio così. Avrebbe contrastato la mia ambizione».
Se quando si è giovani non si sa cosa fare nella vita, si finisce per fare o il politico o il giornalista. L’hai detto tu.
«Sì, perché sono due dilettantismi. Il giornalismo ha il merito di farti approfondire la superficialità degli altri, la politica il demerito di corrompere la tua onestà». Tu hai scelto il giornalismo. «Io volevo arrivare. E sono arrivato».
Dove?
«All’ultima fase della vita. Nella prima devi guardare avanti. Nella seconda in alto. Poi, a un certo punto, devi guardarti dentro. Io sono arrivato qui».
Sei partito ottant’anni fa. Nato a Roma, 9 luglio 1937, sotto il segno del Cancro.
«E dell’improvvisazione».
Hai studiato in Italia e negli Stati Uniti.
«Con molta svogliatezza e poco profitto».
Ti sei laureato in Lettere moderne.
«Immeritatamente».
Hai fatto: cronista, inviato, intervistatore, editorialista, commentatore, conduttore radiofonico e televisivo... Cos’è il giornalismo?
«Quello di ieri era una forte inclinazione, forse addirittura una vocazione. Con un suo codice morale, un’etica civile, un rispetto per il lettore ma anche per il fattorino. Ed eleganza: io andavo in redazione in blazer grigio, dando del lei ai superiori e accettando le critiche. Una missione. Una vita da certosino, come mi aveva detto Indro all’inizio. Scrivere e leggere, leggere e scrivere. Mai fatto parte di un sindacato, mai votato, mai lanciato proclami, mai firmato appelli. Solo i miei pezzi».
E il giornalismo di oggi?
«È diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura. I giornalisti di oggi, a parte quelli culturali, non leggono nulla. Un mestiere che ti fa sentire molto più importante di quello che sei in realtà, che tifa guardare continuamente l’orologio, che ti fa cercare ciecamente quel colossale imbroglio che è lo scoop... È un giornalismo che è stato soggiogato alle ideologie. Non nel senso che i giornalisti abbiano delle ideologie, ma nel senso che le hanno sdoganate per fare carriera, perdendo il bene più prezioso: l’indipendenza. Da qui, l’omologazione dei giornali e dei giornalisti. Tutti uguali».
Tu, per distinguerti, hai inventato un genere. Domande fulminati, risposte rapidissime. Hai intervistato mezzo mondo. E nei ritagli di tempo, non senza irriverente indulgenza, anche te stesso.
«Tutti dicono che la cifra delle mie interviste sia la brevità, che è figlia della chiarezza. Vero. Ma l’essenza è la volontà di non annoiare. L’intervistatore non deve mai annoiare l’intervistato, e l’intervistato deve divertire l’intervistatore. Se le due cose accadono, escono delle belle interviste».
La tua più bella?
«A Georges Simenon. Andai a trovarlo a Losanna, dopo che gli era morta la figlia, la quale aveva per lui una devozione passionale che rasentava l’erotismo. Aveva abbandonato un borgo tutto suo - dove viveva con uno stuolo di cameriere, segretarie, governanti, tutte donne, tutte che avevano sottoscritto un contratto in cui accettavano di avere rapporti sessuali con lui in qualsiasi momento della giornata - per trasferirsi, con la terza moglie, in una casetta a schiera. Non faceva più nulla, se non dettare le sue memorie. Mi fece vedere il passaporto. C’era scritto: “Georges Simenon. Pensionato”. Gli chiesi perché questa scelta. Mi rispose: “Perché nella vita, con gli anni e i dolori, ti accorgi che le cose importanti sono poche. E le superflue ti distraggono da quelle essenziali”. Detto da uno che ebbe novemila donne in vita sua... Comunque, bella intervista».
La più brutta?
«A Coretta King, vedova di Martin Luther King. Maleducata, insolente, razzista. Essendo io bianco, mi trattò come un negro. Mi girò le spalle per tutto il tempo del nostro incontro, sbocconcellando arance. La minoranza che si era emancipata, ora doveva dimostrare la propria superiorità. Patetico».
La più inutile?
«Ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua. Fui l’ultimo a intervistarlo prima che fosse cacciato, e poi ucciso. Mi offrì l’ananasso più buono che abbia mai mangiato. Ma mi raccontò solo bugie. Propaganda e nient’altro. Mi diceva che il Nicaragua era felice sotto di lui...»
L’intervista che avresti voluto fare e non hai fatto?
«A Nixon, il migliore presidente che l’America abbia mai avuto, e a Deng Xiaoping, senza il quale la Cina moderna non sarebbe mai nata. Due statisti giganteschi. Ma che non mi hanno dato l’intervista»
Un’altra a che faceva grandi interviste era Oriana Fallaci.
«Giornalista più passionale che appassionata. Più spericolata che coraggiosa. Più ambiziosa che imparziale. E comunque aveva il difetto di intervistare prima se stessa, poi il suo interlocutore. Le sue domande era lunghissime, anche più della risposta. Molto furba. Una volta incontrai William Colby, già direttore della Cia negli anni Settanta. Era furente con la Fallaci: diceva che lei gli aveva mandato delle domande, lui aveva risposto, e poi lei aveva pubblicato l’intervista con delle domande diverse, cambiate all’ultimo. Lui ne usciva massacrato».
Litigaste, tu e la Fallaci.
«La intervistai per un libro. Ma il Corriere della sera, per cui lavoravo, prima che uscisse in volume fece un’anticipazione dell’intervista sulla Terza pagina. Lei fece la matta. Telefonò a Tassan Din, il direttore generale di Rcs, urlò, sbraitò, minacciò di querelarmi...».
E perché?
«Che ne so? Forse una paginata non le bastava. Voleva un’edizione speciale».
L’unica giornalista più egocentrica di te.
«Sì, ma lei non aveva il sense of humour». Il sense of humour è la tua più grande virtù? «Insieme al senso del dovere. Almeno credo. Ah: e il rispetto per il lettore. Mai farlo sentire ignorante. Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia. Me l’ha insegnato Montanelli. Prima lezione, e anche l’ultima che mi ha dato, e non era neanche sua perché la rubò a un formidabile premio Pulitzer, Webb Miller: “Robertino, ricordati: scrivere facile è difficilissimo. Scrivere difficile, quello sì è molto facile. Stai attento”».
Montanelli è stato il più grande giornalista italiano?
«No. Il più grande giornalista del secolo è stato Longanesi. Lo diceva Indro stesso. Leo Longanesi è stato colui che ha influenzato maggiormente il nostro giornalismo nel Novecento, così come Prezzolini colui che ha segnato maggiormente la cultura, anche più di Benedetto Croce».
E il giornalista più insopportabile?
«Eugenio Scalfari. Il principe dei moralisti, cioè coloro che condannano negli altri, per meglio nasconderli, i propri vizi. E poi ha fatto la cosa peggiore che può fare un giornalista. Ideologizzare il proprio mestiere».
Il giornalista più simpatico? «Giancarlo Fusco. Una sera eravamo a cena. Anni ’60. Un ristorante in via Doria, a Roma. Iniziò a discutere con la sua compagna, della quale era gelosissimo, su Rodolfo Valentino. Lei diceva fosse un grande amatore, lui un frocio. Litigarono così violentemente che si dovette chiamare la polizia. Era matto, ma irresistibile. Andava sempre in giro con la pistola. Una notte credette di vedere la sua donna baciare un altro di nascosto. Sparò in aria. Poi si scoprì che l’altro era il direttore della Fao, a Roma, e la donna la sua amante, probabilmente... Raccontava un sacco di balle, ma le raccontava così bene che se ti avesse raccontato la verità non sarebbe stato così divertente».
E i politici? Il più divertente che hai incontrato?
«Almirante. Ma il più simpatico Andreotti».
E il più antipatico?
«Marco Pannella, ma non perché insopportabile. Perché logorroico. Era un amico, ma quando dovevo intervistarlo tremavo. Era incontenibile, un divagatore continuo, parlava parlava e io non concludevo niente...».
Differenze fra la politica di ieri e quella di oggi?
«Ieri era una professione, oggi una carriera. Fanfani quando era presidente del Senato aveva sempre a portata di mano 5 o 6 cravatte da prestare ai colleghi prima di entrare in aula, quando vedeva degli abbinamenti che non riteneva abbastanza eleganti. Oggi, tu la vedi la gente che va in Parlamento? È una classe politica sbracata, volgare, ignorante, impresentabile. La politica è sempre stata un affare da puttane. Ma ieri almeno era una casa di appuntamenti di lusso, oggi un bordello da suburra».
E gli italiani che stanno in mezzo?
«Hanno le stesse colpe dei politici. Sono loro a sceglierli. E sono uguali a loro. Trovami un italiano in mezzo a centomila che, se non fosse al loro posto, non si comporterebbe allo stesso modo, tra privilegi, ruberie, impunità. La politica italiana è questa, perché questi sono gli italiani. È un Paese che sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere».
A destra o a sinistra?
«La sinistra è finita con Mussolini, e la destra anche. Quando diresse l’Avanti! era la vera sinistra, e quando fondò i fasci di combattimento la vera destra».
Dopo?
«Togliatti e De Gasperi, per breve tempo, hanno illuminato la sinistra e la destra. Dopo di loro ci sono stati solo professionisti della politica, alcuni abilissimi, come Andreotti, Craxi e Almirante. E per il resto arruffoni e arraffoni. I politici della prima Repubblica non erano santi, ma avevano decoro. Questi di oggi neanche la decenza».
«Cosa c’entra Berlusconi. Lui è un imprenditore, e anche diverso dagli altri: ogni imprenditore vende l’arrosto. Ma lui lo vende anche ai vegetariani. Però non è un politico. Semmai un uomo di potere, che è diverso. Ha sempre rifiutato i tatticismi, le astuzie, le meschinerie della politica. Lui non esclude nessuno per principio. Perché i suoi prodotti, come le sue idee, li vuole vendere a tutti. In questo è un liberale modello».
E tu, cosa sei?
«Un conservatore anarchico. Conservatore perché voglio conservare quello che c’è di buono. Anarchico perché non accetto imposizioni. Ma rispetto le leggi e le istituzioni. Sono un ribelle, ma preciso». Ribelle, preciso, pignolo, libertino, sarcastico, primadonna anche a riflettori spenti - sulla scena come in camerino -, Roberto Gervaso tiene in esercizio la propria intelligenza pensando il contrario di quello che dice. E a volte, viceversa. L’anticonformismo è il suo habitus, l’aforisma la sua complessità, il paradosso la sua logica, la battuta il suo asso nella manica. Rigorosamente di camicie Brooks Brothers. Ha passato una vita a parlare della sua paura della morte. E ora i discorsi sulla morte sono la sua ragione di vita. Intervistatore princeps che adora farsi intervistare - interviste modello confluite editorialmente in una trilogia otorino-laringo-oftalmica:Il dito nell’occhio (1977), La pulce nell’orecchio (1979), La mosca al naso (1980) – Gervaso offre risposte che con il punto interrogativo sarebbero meravigliose domande. Botta e ripensa: a domanda, risponde. Lo sventurato, domanda: e la P2? «Nessuno mi chiese niente e io non ho chiesto niente a nessuno. Presentai io Berlusconi a Licio Gelli: non accadde niente. Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede».
Per anni, al Corriere della sera, ancora sotto la direzione De Bortoli...
«Un coniglio azzimato. No: scrivi “volpe azzimata”, non vorrei querelasse».
... ancora sotto la direzione De Bortoli al Corriere non si potevano recensire i tuoi libri...
«Ipocriti. Proprio loro, che avevano un direttore iscritto alla loggia».
L’occhiuto Raffaele Fiengo, membro del comitato di redazione, proibì che fosse anche solo citato il tuo nome sulle pagine del Corriere. Me l’ha detto un vecchio redattore.
«Fiengo. Il mastino della Lubjanka di via Solferino».
Perché il Corriere precipitò così a sinistra? «Chiedilo all’editore di allora, Giulia Maria Crespi. Fu lei la regista di quella operazione suicida. Magari ti risponde. O forse no. Non ha abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manca».
I tuoi aforismi. Tutti copiati dai peggiori luoghi comuni degli italiani. Quanti nei hai scritti?
«Venticinquemila».
Il più bello?
«L’amore senile comincia col matrimonio».
Hai amato molto?
«Amato-amato, poco. Desiderato tanto».
Cosa desideri, adesso?
«Leggere le uniche cose che vale la pena leggere: Seneca, Ovidio e Voltaire. E scrivere le uniche cose che vale la pena scrivere: i miei articoli di giornale». Montanelli sognava di morire avvolto nell’edizione straordinaria del giornale. Tu? «Mi basta quella quotidiana».
Ho fatto una ricerca d’archivio.
La domanda che hai posto più volte ai tuoi intervistati è stata:«Cos’è per lei la morte?». Risposta? «O un ponte o un abisso. Cioè: un passaggio verso qualcosa d’altro oppure un precipizio nel nulla. Spero la prima. Ma temo la seconda».
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