Le profondità del ponte Morandi, il viadotto crollato a Genova il 14 agosto 2018, non venivano esplorate da troppo tempo, nonostante in molti sapessero che all'interno dei suoi "cassoni" ci fosse dell'acqua, condizione primaria per scatenare processi (pericolosi) di ossidazione e di ammaloramento della struttura. Secondo quanto riportato da Repubblica Genova, infatti, non solo i tecnici di Spea, cioè i responsabili del controllo di tutti i viadotti, non entravano all'interno del viadotto Polcevera almeno dal 2013, ma la scelta di non esplorarne le profondità per conto della società gemella, Autostrade per l'Italia, sarebbe stata compiuta nonostante si fosse a conoscenza dell'acqua al suo interno.
La denuncia
Secondo quanto riportato dall'edizione locale del quotidiano, la prova di questa consapevolezza sarebbe nella documentazione che le due società hanno consegnato alla procura di Genova (che sta indagando per "falso" diverse persone di Aspi e Spea), ma anche al ministero delle Infrastrutture. E sarebbe stata proprio la commissione ispettiva, voluta dall'ex ministro del Movimento 5 Stelle, Danilo Toninelli subito dopo il crollo, a pubblicare quelle carte. I documenti, infatti, riportano in allegato i risultati delle varie ispezioni periodiche realizzate sul viadotto Polcevera nel corso degli ultimi decenni per conto della concessionaria.
Le segnalazioni (inascoltate)
In almeno due circostanze, però, Spea segnalava "ristagni d'acqua all'interno dei cassoni". Ma erano il 2014 e il 2017, anni in cui nessuno era entrato nella struttura. E la domanda su come gli esperti fossero a conoscenza dell'informazione pur non essendo entrati per il monitoraggio è un punto che gli inquirenti stanno cercando di analizzare. Il mancato controllo è stato più volte sottolineato nella relazione della commissione del Mit, presieduta dall'ex ingegnere capo del Sisde, Alfredo Principio Mortellaro, dopo l'allontanamento del Provveditorato ligure alle opere pubbliche, Roberto Ferrazza, finito anche lui tra gli indagati.
I problemi già negli anni '80
I problemi legati al ponte erano già stati denunciati in altre circostanze, persino negli anni Ottanta, da Morandi stesso. Nella relazione finale si legge: "Un siffatto quadro va analizzato altresì con le diagnosi fatte dal progettista Morandi, già nell''81, che aveva analizzato alcune criticità della parte cassonata con un deficit di efficacia del sistema di drenaggio delle acque in piattaforma e conseguenti percolamenti all'interno dei cassoni. Tale situazione comportava un difficile monitoraggio della parti non a vista, in tal senso si prescriveva un adeguamento oltre che del sistema di scarico anche delle betole passauomo". E poi, ancora: "Trattasi di aspetti che ricorrono con sistematicità anche negli anni successivi alla diagnosi di Morandi e che sembrerebbero in realtà mai efficacemente risolti e peggio anche indagati nel necessitato modo, nel senso che in tutta la documentazione Spea sono rinvenibili solo pochissime notazioni di ispezioni interne ai cassoni degli impalcati dei sistemi bilanciati".
Le ipotesi e i problemi comuni a ogni viadotto
La commissione del Mit, che fino allo scorso luglio non aveva potuto visionare il video del crollo registrato dalle telecamere dell'azienda Ferrometal, ha suggerito come prime ipotesi di causa dell'incidente proprio la rottura dell'impalcato a cassone della pila 9. Il cedimento di uno strallo (la dinamica ritenuta più probabile dai consulenti della procura) è contemplato solo come terza ipotesi dagli uomini del ministero.
E sui mancati controlli dei cassoni dal 2013 in avanti, la procura ha esteso i suoi accertamenti a tutta la rete autostradale, notando come il problema del monitoraggio sia comune a diversi viadotti italiani.
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