La riforma costituzionale proposta da Giorgia Meloni vuole introdurre «il premierato». Si tratta, e scusate se spiego cos'è l'acqua calda, di consentire al popolo di esercitare la propria sovranità scegliendo il capo del governo che gli garba di più. Banale: chi ha più voti, vince, si prende la maggioranza dei seggi in Parlamento, entra a Palazzo Chigi. Se poi il premier si trova contro i suoi stessi sostenitori, vanno tutti a casa, e si rifà la riffa. Semplicità al potere, evitando al capo dello Stato gincane oscure come quelle che ci hanno appioppato due governi intestati a Giuseppe Conte sostenuti da maggioranze di colori antitetici.
Contro l'idea classica che funziona sin dai tempi delle elementari per l'elezione del capoclasse ed è praticata con successo anche per individuare i capi tribù a Papua, si è subito levato un fuoco di sbarramento: è contro lo spirito della Costituzione, ucciderebbe la democrazia parlamentare imponendo una «deriva anti-democratica». Il ministro Guido Crosetto, che scemo non è e ha un coraggio notevole, ha osato sostenere in una intervista al Corriere della Sera che prevede guai giudiziari, dato che in Italia esiste una «opposizione giudiziaria», «una fazione antagonista da sempre e che ha sempre affossato i governi di centrodestra». Gli hanno risposto eminenti giuristi di sinistra, a nome del «sistema» invano smascherato da Palamara e Sallusti, chiedendogli di dimostrarlo. E così il titolare della Difesa venerdì alla Camera ha dovuto difendersi non da Hamas ma dall'accusa di aver dichiarato che le foglie sono verdi d'estate e poi d'autunno addirittura ingialliscono. Non sono un rabdomante, non c'è bisogno di avere doti intuitive alla Kissinger, basta un minimo di sensibilità nei piedi per percepire vibrazioni e sommovimenti sotterranei tesi a confermare una verità storica che sfido chiunque a smentire.
In Italia c'è da decenni il premierato, non si basa su elezioni democratiche, ed è esercitato non da una persona ma da una casta: è - per usare un'espressione sudamericana - il «primerear» , o se preferite il «balconear» della magistratura. Giudici e (soprattutto) pubblici ministeri si godono il loro premierato, e la politica, tutta - nonostante le ribellioni mai dome di Silvio Berlusconi - si è dovuta accomodare nel «secondariato». Una posizione ancillare e, se volete, a rischio continuo di femminicidio, sottoposta al regime patriarcale (...)
(...) di certi procuratori. Tutto questo continua. Come ha dimostrato nel suo bel libro appena uscito Alessandro Barbano (La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana, Marsilio, pag. 250, 18) a differenza del potere legislativo ed esecutivo (la politica) - che si lasciò frantumare da Mani Pulite nei primi anni 90, restando da allora gregario dell'ordine giudiziario -, il sistema togato che pareva disfatto dalle sue miserie, si è ricostituito ed esercita come nulla fosse il suo premierato.
Se funzionasse, se cioè il potere giudiziario fosse efficiente ed equo, si potrebbe ancora sopportare. Si potrebbe chiudere un occhio. Ma ogni giorno balzano fuori magagne gigantesche che non inducono mai i capi del sindacato unico dei magistrati a battersi il petto. Penso al caso infame del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, condannato per l'omicidio di tre pecorai. Ergastolo, niente prove, dicerie. Dopo 32 anni di battaglie silenziose, rinunciando a permessi e facilitazioni, perché avrebbero significato il riconoscimento della sentenza, c'è voluta la ribellione di coscienza dell'attuale procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, per aprire la cella a un innocente, mangiato vivo da un apparato che rifiuta qualsiasi riforma.
Zuncheddu viene dopo Enzo Tortora (ed ho sempre uno scrupolo a citarlo per il timore di nominarlo invano), dopo il caso dei sette condannati ingiustamente all'ergastolo per la strage di via D'Amelio (luglio 1992) per un depistaggio per il quale nessun magistrato ha subito non dico punizioni, ma neppure un rallentamento della carriera, eccetera.
Ovvio che sia necessaria una profonda riforma dell'organizzazione giudiziaria, un salto di qualità nella formazione delle toghe, separando le carriere di pm e giudici che oggi si spalleggiano come capita a compari bisognosi di favori reciproci. Finora inchieste ad hoc, ricatti trasversali condotti con la complicità di parti politiche privilegiate storicamente dalla casta ermellinata, hanno sempre impedito risanamenti in profondità. Qualcosa è riuscito, durante il governo Draghi, all'ottima guardasigilli Marta Cartabia, ma senza poter andare oltre la superficie.
E adesso? Il governo deve decidere se chiudere prima la partita sul premierato o quella per una riforma seria della giustizia che deve passare per forza dalla separazione delle carriere, auspicata dallo stesso Giovanni Falcone. Di certo l'una renderebbe possibile l'altra, in un circolo virtuoso.
A quale dare la precedenza? A Giorgia e ai suoi alleati piuttosto riluttanti tocca decidere in fretta. Il potere delle toghe finora ha sempre vinto, ed è a tutt'oggi inscalfibile. Sono pessimista. A me risulta però che Meloni abbia buone unghie.Vittorio Feltri
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