Lo chiamano anno «anomalo» ed è quello che precede ogni sette anni l'elezione del Capo dello Stato. In quell'anno ogni manovra politica, ogni uscita pubblica, ogni sentenza, ogni fatto di cronaca ha due letture nel Palazzo: quella fattuale e quella che va interpretata nella logica della corsa al Colle. E, non vanno dimenticate in questa doppia lettura, le conseguenze che possono derivare dalla scelta di un Presidente o di un altro. Ad esempio, quando Matteo Salvini lancia il nome di Mario Draghi, automaticamente quella sortita viene legata alla convinzione che il trasloco del Premier da Palazzo Chigi al Quirinale aprirebbe la strada delle elezioni anticipate nel 2022. Di contro, quando Enrico Letta sull'ipotesi che l'ex-numero uno della Bce succeda a Mattarella traccheggia o prende tempo, si arguisce che il segretario del Pd non vuole correre il rischio che la legislatura non arrivi alla sua fine naturale nel 2023. La scelta del Presidente, insomma, è considerata uno strumento per raggiungere un obiettivo politico e non avviene sulle garanzie che offre un nome. O, almeno, sono in pochi a utilizzare questo metro. «Se questo Paese osserva il ministro Renato Brunetta non avrà Draghi come Capo dello Stato o come Premier andrà in bancarotta il giorno dopo. E, francamente, averlo al Colle per sette anni darebbe una garanzia ampia, il tempo necessario per tirare fuori il Paese dai guai».
Così l'ipotesi Draghi per il Quirinale, forte sulla carta, si presenta fragile quando è calata nel concreto. L'interessato vuole farlo e stenta a nasconderlo, ma il rischio «urne» raffredda non poco sul suo nome Pd, sinistra, Cinquestelle e il partito trasversale di chi non vuole lasciare anzitempo la poltrona e magari rimetterci la pensione da parlamentare. «Ma quale deputato si chiede il piddino Umberto Del Basso De Caro voterebbe un Presidente che poi firmerebbe il decreto di scioglimento delle Camere? C'era un libro dal titolo Morire per Kabul. Appunto, perché morire per Draghi? Meglio la Cartabia». Sintetizza il capogruppo di Liberi e uguali, Federico Fornaro: «Con Draghi si vota nel 2022 e, aggiungo, con l'attuale legge elettorale, il Rosatellum. Con un altro Presidente nel 2023 e, scommetto, con una legge elettorale proporzionale».
Quindi, ancora una volta rischia di avere ragione il vecchio proverbio: chi entra Papa nel conclave rischia di uscire cardinale. Anche perché non c'è elezione più spietata, che si porta dietro morti e feriti, di quella del Capo dello Stato. E non potrebbe essere altrimenti: l'inquilino del Colle non solo è il garante del Parlamento, ma anche il Capo delle Forze Armate e il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. E se i parlamentari lo eleggono, gli altri Poteri, in questi anni diventati sempre più forti, tentano di condizionarne l'elezione. Durante l'anno «anomalo» succede, infatti, di tutto: fioccano i dossier e ci sono le scalate ai gruppi editoriali (proprio in queste settimane Riffeser sta pensando di scalare il Corriere di Cairo). È sempre successo e così sempre sarà. Oggi la Corte Europea chiede conto al Governo italiano con dieci domande (paradossalmente più o meno come faceva un tempo La Repubblica nelle sue campagne anti-Cav) della condanna di Silvio Berlusconi di otto anni fa sulla vicenda Mediaset. Ha dei dubbi sulla correttezza di quel processo. Come, a distanza di tempo e con la cronaca che ha fatto spazio alla Storia, li hanno in molti.
Anche allora, sia pure indirettamente, la corsa al Quirinale ebbe parte in quella vicenda. Pochi cenni per inquadrare quel momento: dalle elezioni del 2013 uscì un Parlamento ingovernabile per le coalizioni tradizionali; venne rieletto Capo dello Stato Giorgio Napolitano ma con l'idea che sarebbe stata una «proroga», una riconferma a tempo; Bersani, segretario del Pd, provò l'alleanza con i 5stelle che dissero di no e fu costretto a mettere in piedi un governo Pd-Forza Italia guidato da Enrico Letta. Ora era chiaro che se fosse andata avanti quell'esperienza, negli equilibri di quell'alleanza, quando il Nap si fosse dimesso, il Quirinale sarebbe andato a un esponente di Forza Italia, probabilmente a Berlusconi. Praticabile o meno, quell'ipotesi in teoria (ma con il Cav la teoria si trasforma immediatamente in prassi) era nelle cose e bastava solo questo a terrorizzare una magistratura che si muoveva con logiche politiche, come ha raccontato l'ex-Presidente dell'Associazione magistrati Palamara. Così, per spazzare via dalle cose possibili una simile prospettiva, arrivò quella condanna in un processo che, tra i tanti affrontati dal Cav, si basava su un'accusa assurda. «Io non ero ancora un protagonista dice oggi Matteo Renzi , ma quel capo d'accusa era ridicolo, senza senso. Al di là di ciò che avvenne nel processo, un'evasione di proporzioni così minime, magari figlia di un errore, rispetto al bilancio di un'azienda, non dovrebbe neppure finire nel penale, ma essere risolta con una multa. La verità è che quel processo fu l'epilogo di venti anni di anti-berlusconismo della sinistra a cui io posi fine successivamente».
Già, l'obiettivo era privare il Cav di un futuro politico. Non per nulla nelle trattative per una possibile «grazia» che Napolitano portò avanti con gli avvocati di Berlusconi la conditio sine qua non era che il leader di Forza Italia si ritirasse dalla vita politica. In sintesi: evitare, nel momento in cui il Nap avesse mollato la carica, che il Cav fosse candidabile per il Colle. A distanza di otto anni questa interpretazione si è fatta largo in Parlamento. Lo confida il piddinio De Basso De Caro: «Berlusconi fu condannato perché poteva aspirare al Quirinale». Lo dice a voce alta nel cortile di Montecitorio il moderato-renziano Giacomo Portas: «Certo che fu condannato per impedirgli di andare al Colle. L'evasione per cui fu condannato nel bilancio delle aziende di Berlusconi equivale all'evasione per il guadagno di un caffè in un bar: è il discorso che mi fece il mio fiscalista. Ecco perché, lo dico pubblicamente, io sono pronto a votarlo anche oggi per il Quirinale». Ed è nei racconti di chi è ancora attorno al Cav. «Di fatto ammette Sestino Giacomoni, uno dei suoi uomini ombra andò così». O di chi lo è stato. «Ma che dubbio c'è! Non volevano che andasse al Colle», esplode Giuseppe Gargani, prima responsabile giustizia della Dc e poi di Forza Italia: «Eppoi io conosco il presidente del Tribunale che lo condannò, Esposito, dai tempi in cui fu trasferito come pretore per dei fatti non certo lusinghieri». E dello stesso parere è anche Paolo Zangrillo, coordinatore azzurro del Piemonte, che ha tratto questa convinzione dai racconti del fratello Alberto, medico del Cav.
Ora l'iniziativa della Corte di Strasburgo, legata alle dichiarazioni postume del relatore del tribunale che condannò il Cav e ai racconti di Palamara, potrebbe offrire un'altra visione di una vicenda che ha cambiato il corso della politica italiana. «Sembrerà strano spiega Enrico Costa, approdato alla corte di Calenda , ma Berlusconi ha più possibilità di essere eletto oggi che allora. Quel clima di ostilità nei suoi confronti si è smussato.
Semmai rischia che lo scherzo glielo facciano dentro il centro-destra. E, comunque, la risposta alle dieci domande dell'Europa non deve essere quella di routine di qualche avvocato dello Stato, deve rispondere il Governo italiano, cioè Draghi». Altra suspense nella corsa al Colle.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.