La resa finale della politica

Il termometro della nuova stagione politica sta tutto in un dettaglio che potrebbe apparire marginale

La resa finale della politica

Il termometro della nuova stagione politica sta tutto in un dettaglio che potrebbe apparire marginale. Anche ieri sera, al termine dell'ultimo giorno di consultazioni, Mario Draghi ha infatti scelto di lasciare Montecitorio uscendo dalla porta sul retro, cioè dall'ingresso laterale di via dell'Impresa. Ancora una volta, dunque, dribblando giornalisti e telecamere. Un inedito per un presidente del Consiglio incaricato, addirittura inconcepibile se si pensa a come è stata gestita la comunicazione di Palazzo Chigi negli ultimi due anni e mezzo. Un vero e proprio cambio di paradigma, la cartina di tornasole di come l'ex presidente della Bce sta riscrivendo i rituali e gli equilibri della politica. Lo stesso silenzio che riserva ai media, infatti, Draghi lo sta dispensando anche ai suoi interlocutori, a partire dai partiti che sanno poco o niente sulla formazione del nuovo governo. D'altra parte, anche durante le consultazioni la scena che si è ripetuta più e più volte è stata la seguente: breve introduzione di Draghi, parola agli interlocutori con il premier incaricato che si limita a prendere appunti senza dire una parola e, infine, saluto di congedo con ringraziamento per i graditi suggerimenti. Insomma, riserbo e discrezione. Al punto che anche un certo fastidio verso la decisione di Beppe Grillo di far votare il sostegno del M5s al nascituro governo sulla piattaforma Rousseau non è sostanzialmente filtrato all'esterno. Certo, Draghi lo ha condiviso con Sergio Mattarella - con cui i contatti sono costanti e che gli ha chiesto di pazientare - e il messaggio è arrivato anche allo stesso Grillo che, non a caso, martedì sera ha improvvisamente rinviato la consultazione on line. Si terrà oggi, dopo che ieri l'ex presidente della Bce ha sentito il fondatore del M5s dando il via libera alla nascita del superministero per la Transizione ecologica.

Il quadro complessivo del nuovo esecutivo, però, ancora non prende forma. O, meglio, Draghi e Mattarella è probabilissimo che lo abbiano già piuttosto chiaro. Ma non è stato ancora comunicato - neanche informalmente - all'esterno. Navigano a vista, dunque, i vertici dei partiti, anche quelli che più hanno una consuetudine con il Colle. Quel che appare quasi certo, però, è che resteranno fuori dall'esecutivo i leader. Alla fine sembra si sia convinto anche Nicola Zingaretti che questa volta sarebbe stato disponibile ad entrare nel governo, ma non a sedersi allo stesso tavolo con Matteo Salvini. E così non ci sarà neanche l'ex ministro dell'Interno. Con il rischio di dover gestire il «contro-Papeete» della Lega dalle retrovie. Non un dettaglio, perché per un leader abituato alla campagna elettorale permanente e a prese di posizione nette non sarà affatto facile camminare in equilibrio sul filo del governo Draghi per almeno un anno. Soprattutto se la faccia della Lega all'esterno sarà un'altra.

Si prospetta, dunque, un esecutivo a trazione tecnica. Con il Quirinale che si sarebbe riservato l'ultima parola su dicasteri chiave come Economia, Interno, Esteri, Giustizia e Difesa. Ai partiti che sosterranno la maggioranza dovrebbero essere concessi uno o due ministeri, in questo secondo caso nella formula di un politico più un tecnico d'area. I nomi che girano sono sempre quelli: Luigi Di Maio per il M5s, Dario Franceschini per il Pd, Roberto Speranza per Leu, Teresa Bellanova per Italia viva, Giancarlo Giorgetti per la Lega, Antonio Tajani per Forza Italia. Insomma, chissà che alla fine Di Maio non debba ringraziare chi nel M5s lo costrinse, esattamente un anno fa, a lasciare la leadership del Movimento al reggente Vito Crimi.

Di certo, c'è che il premier incaricato non è intenzionato a farsi condizionare dalle richieste dei partiti. Non ci saranno, insomma, contrattazioni. E si cercherà di attingere tra gli uscenti, da riconfermare nei loro dicasteri dei quali già conoscono dossier e criticità. In questo modo si velocizzerà al massimo la messa in moto della macchina amministrativa.

Uno scenario, quello che si va delineando, quasi da anno zero della politica. Di certo, il populismo rischia di andare in contro ad un brusco stop. Il M5s è già in crisi da tempo e ha pagato il dazio di due governi in due anni e mezzo, per giunta con due maggioranze diverse. È probabile che nei prossimi mesi toccherà alla Lega, costretta a fare i conti con il nuovo corso. Non è affatto un caso che Salvini volesse giocare la partita in prima persona, entrando al governo come ministro, forse l'unica strada per provare a parare gli inevitabili contraccolpi della svolta.

Invece nell'esecutivo ci sarà quasi certamente Giorgetti, con il leader del Carroccio che spera di poter disporre di almeno un'altra casella per indicare un nome di sua completa fiducia. E che, forse, anche con lo sguardo a un necessario riposizionamento verso il centro, ha riaperto un canale diretto con Silvio Berlusconi. Ieri i due si sono incontrati faccia a faccia, cosa che non accadeva da un anno.

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