Quando Federico Palmaroli si ritrova con la pagina Facebook oscurata si sente un po' come K: «E mo' che ho fatto?». K è il protagonista del Processo di Kafka. «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». Chi lo accusa? Chi dovrà decidere la sua sorte? Boh. C'è un'autorità remota e inaccessibile che non chiarisce neppure la natura del suo crimine. Sono cose che capitano.
Federico Palmaroli lavora come impiegato in un'azienda. Ha una scrivania, una lampada e un cartellino da timbrare. Questo quando non prende le foto di qualche personaggio più o meno famoso e lo fa parlare: motti, battute, dialoghi che riportano a misura d'uomo il mondo lontano della politica o dello spettacolo. Federico diventa Osho. Osho è satira e irriverenza. Osho spiazza e ti strappa una risata. Osho svela il lato comico della realtà. Osho che per qualcuno odora un po' troppo di destra. Osho che ha preso il nome in prestito da Chandra Mohan Jain, il santone, il maestro spirituale indiano, la via illuminata alla conoscenza.
Osho che ieri si è ritrovato bannato. La pagina su «le più belle frasi di Osho» era fuori dalle terre di Zuckerberg. Che è successo? Osho non lo sa. Non ha bestemmiato. Non ha scritto parole infami. Non c'è nulla che possa ricadere nella lista nera di ciò che non si può nominare. Ci pensa, chiede, indaga e poi riesce ad arrivare, con tanto di ricorso d'urgenza, negli uffici di Facebook Italia. Ci riesce anche perché è Osho, con una pagina che pesa e viene seguita, e non un poverocristo. Qui gli rivelano per fortuna la colpa. Non è un delitto ideologico. «State tranquilli. Mi ero solo dimenticato di pagare la bolletta». Scherza.
Sono stati ancora una volta i seguaci di Osho, quello vero, a segnalarlo. Deplorevole. Falso. Fake news. Inappropriato. Consigliere fraudolento. Violento. Non importa che da anni non usi più le foto del maestro spirituale. Non sta violando il diritto all'immagine. Non scherza più sui santi. La sua colpa è nel nome. Continua a chiamarsi Osho e va censurato. Questa volta non è politica. È fede. È la rivolta dei permalosi.
La pagina torna presto visibile. Ma chi è che banna? Chi lo decide? Qui si torna a Kafka. Non è una scelta umana. È lui, il dio dei social, l'ineffabile, talmudico, matematico, in qualche modo metafisico, vostro onore il giudice, vale a dire: l'algoritmo. L'autorità remota e inafferrabile che atterra e suscita, che affanna e che consola. Il destino che scorre sulla scia dei numeri.
Come ogni Dio troppo giovane non ha il dono della flessibilità. È piuttosto ruvido e si incavola facilmente. È sospettoso e puritano. Se qualcuno viene segnalato da un numero rilevante di onesti cittadini qualcosa avrà pur fatto. Nella terra dei social non esistono presunti innocenti. Prima si oscura e poi ci si chiede perché. È il paradiso dei censori, dei malfidati, dei giacobini e degli inquisitori, dei «ricordati che devi morire» e degli invidiosi. Basta puntare l'indice. L'algoritmo è ignorante. Non contestualizza. Non legge. Sospetta e fa proseliti. È un bacchettone ottuso.
Non sopporta le cattive parole e non se vede «l'origine del mondo», la bolla subito come pornografia. Si indigna per una canzone degli Squallor e ha creato masse di indignati, i profeti dell'ostracismo. Basta una manciate di pietre nere per ritrovarti fuori. L'algoritmo non ama le anomalie.
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