Le saudite e i Giochi negati Meglio veline che schiave

L’ultimo diritto scippato alle donne arabe: niente Olimpiadi. Un caso che ci fa riflettere. Siamo fortunate anche a essere libere di spogliarci

Le saudite e i Giochi negati Meglio veline che schiave

Alle Olimpiadi di Londra non sfilerà nessuna don­na sotto la bandiera saudi­ta. Solo un corteo maschile, co­me maschile è il regime wahabita che tiene sotto scacco i cittadini sauditi. I tentativi di mediazione del Comitato Olimpico Interna­zionale non sono bastati. Le atle­te saudite, come la cavallerizza Dalma Rushdi Malhas, non sfile­ranno sotto la bandiera del Cio né potranno avvalersi di quegli inviti speciali (wild card) che in­vece Paesi come il Brunei e il Qa­tar hanno deciso di adoperare consentendo per la prima volta la partecipazione del gentil sesso ai Giochi. Del resto già il 4 aprile scorso il principe Nawwaf al-Fai­sal, ministro dello sport e presi­dente del comitato olimpico sau­dita, aveva spazzato via ogni dub­bio: «Lo sport femminile non è mai esistito nel nostro Paese e non abbiamo intenzione di muo­verci in questa direzione». Più chiaro di così?

Da un rapporto di «Human Ri­ghts Watch» scopriamo che in Arabia Saudita la pratica sporti­va femminile, quando non è aper­tamente vietata, è impedita a col­pi di burocrazia. Il risultato è che negli ultimi anni diversi impianti sono stati chiusi e ad oggi soprav­vivono 153 club sportivi esclusi­vamente maschili. L’Arabia Saudita è l’unico Pae­se al mondo che vieta alle donne di guidare. Secondo Freedom House nell’area del Medio Orien­te e del Nord Africa la teocrazia saudita è il Paese dove i diritti del­le donne sono più violati. Esiste di fatto una segregazione di gene­re: le donne sono cittadine di se­rie B, escluse dal diritto di voto (nonostante le recenti «promes­se » del sultano), non possono viaggiare né ricevere cure medi­che senza il beneplacito dell’uo­mo. Sono figlie di un dio minore. Ma loro non si arrendono e sfida­no i divieti utilizzando i social network e YouTube. Da qualche giorno, per esempio, circola il vi­deo di una donna coraggiosa, che con il suo smartphone ha ri­preso una scenetta assai eloquen­te: un uomo della polizia religio­sa le intima di uscire dal centro commerciale a causa delle sue peccaminose unghie smaltate.

La ragazza, anziché voltarsi e ob­bedire, protesta. «Non avete il di­ritto di molestarmi. Sono libera di indossare lo smalto sulle un­ghie, non esco». Poi arrivano altri ufficiali, gli uomini in divisa par­lano tra loro, forse uno accenna al rossetto della donna, la quale ri­batte: «Il rossetto sulle mie lab­bra? Ma venite a controllare. Ver­gognatevi ». Le donne non mollano, vanno incontro ad arresti, frustate e pati­boli. Vogliono più libertà, recla­mano il diritto di indossare lo smalto sulle unghie, vogliono mostrare i capelli, persino le gam­be, che impudenti. A casa nostra invece, per un cu­rioso contrappasso, fa capolino un femminismo consunto che ri­coprirebbe volentieri le gambe dei tavoli,che mette all’Indice de­gli Insetti Proibiti una farfalla ta­tuata sull’inguine, che indirizza roboanti pseudoscomuniche ai sindaci rei di non aver censurato certe pubblicità scandalose, che addita delle giovani ragazze sol­tanto perché da grandi non vo­gliono diventare accademiche ma esuberanti starlette. È un fem­minismo corporativo a pois rosa, che distingue tra donne di serie A e donne di serie B, tra madonne e puttane. È un femminismo sfre­natamente politicizzato che ber­saglia giovani e ambiziose don­zelle aduse ad accarezzare il pote­re, al solo scopo di colpire quel po­tere.

Senza comprendere che l’emancipazione non è autocasti­gazione né negazione del corpo e della nudità, ma rifiuto di ogni

stereotipo, inno alla libertà di scelta. Ecco, tifiamo per quelle donne saudite, la loro lotta ci ri­corda la nostra fortuna. Evviva tette e culi al vento, evviva occhia­loni e shorts inguinali. Siamo libe­re, nostro malgrado.

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