Se non accettiamo la morte degli embrioni in laboratorio

La medicina incoraggia la nostra volontà di potenza, per questo l'errore è inammissibile. Ma l'infallibilità è solo un'illusione e il caso del San Filippo Neri di Roma lo dimostra

Se non accettiamo la morte degli embrioni in laboratorio

Periodicamente, nel corso della storia, si è cercato di rispondere alla domanda cruciale: che cos'è l'uomo?

È successo nei momenti di maggiore urgenza culturale («ché perder tempo a chi più sa più spiace», dice Dante). Se lo sono chiesto nell'antica Grecia. Se lo sono chiesto i Padri e i Dottori della Chiesa, così come i Rinascimentali nel Cinquecento, o gli Illuministi nel Settecento.

La stessa domanda risuona in questi giorni, in modo disturbante, senza lasciare il tempo alla pacata riflessione, dopo l'incidente al centro di procreazione dell'ospedale San Filippo Neri di Roma, dove sono andati distrutti, tra gli altri, novantaquattro embrioni.

L'evento ha suscitato un notevole scandalo non solo nel mondo cattolico, ma un po' dappertutto, per ragioni diverse. Tutti conosciamo le posizioni dei cattolici, sulle quali possiamo concordare o meno, ma che hanno in ogni caso il pregio della chiarezza, e forse proprio per questo risultano per molti così irritanti.

C’è però chi, da tutt'altra parte, ha dichiarato inammissibile l'episodio, e per ragioni ben diverse da quelle cattoliche. Ed è su queste che proponiamo al lettore una breve riflessione, perché qualcosa da imparare c'è, e non di poca importanza.

Lo scandalo di cui parliamo non riguarda, infatti, i novantaquattro embrioni e i centotrenta ovociti distrutti. Riguarda uno solo dei novantaquattro embrioni: quello che doveva essere impiantato proprio in questi giorni nell'utero di una donna.

In altre parole: novantaquattro embrioni sono andati «distrutti», ma uno solo di essi è stato «ucciso», perché quello soltanto era destinato a diventare un essere umano. La donna che lo attendeva ha, come si dice, perso il bambino. Se l'espressione non fosse del tutto idiota, potremmo parlare di aborto extrauterino, o qualcosa di simile.

Lo scandalo è soprattutto questo. Sappiamo infatti che dopo due anni gli embrioni vengono distrutti, come si dice, di default, quindi non c'è niente di speciale nell'incidente in sé. Spiacevole, questo sì, ma niente di più. Molti di quegli embrioni erano riserve, come nel calcio: se la gravidanza va male, ce n'è un altro pronto. Ma si sa che, quasi certamente, non sarebbero mai stati impiantati.

Erano novantaquattro embrioni, tutti uguali, tutti incapsulati nella loro esistenza subpolare. Le loro cellule, ferme. I loro neuroni (se ce n'erano), immobili. Per la debole saggezza umana, nessuno di loro attendeva niente.

Ma l'uomo - sotto le sembianze di un padre, di una madre e di uno staff medico - aveva deciso che uno di questi novantaquattro, perfettamente uguale, sarebbe diventato un uomo a sua volta: uno di noi. Sarebbe cresciuto, avrebbe studiato e lavorato, forse avrebbe avuto figli senza bisogno della fecondazione artificiale.

Tutto giusto e legittimo. Ma, come si vede, qui una risposta all'antico interrogativo, «che cos'è l'uomo?» emerge a chiare lettere: l'uomo è quello che noi decidiamo che sia. La differenza tra «uomo» e «non-uomo» non sta in un fattore oggettivo, ma in una decisione che qualcuno ha il potere di prendere.

Potremmo dire, più semplicemente: l'uomo è un'entità mentale, una pura astrazione, la cui consistenza è definita dal progetto che ha su di esso. Altrimenti, è letteralmente niente.

Nessuno aveva in mente, infatti, di trasformare novantatré di quegli embrioni, mentre per il novantaquattresimo esisteva un progetto, o meglio: un programma. È il programma che conferisce all'embrione lo statuto di «uomo». Ma l'uomo come realtà ontologica non esiste (con tutte le conseguenze che questo comporta sul piano del Diritto ecc.).

Che gli strumenti di conservazione non abbiano funzionato è, pertanto, imperdonabile per tutti coloro che ritengono che compiti della scienza e della medicina siano quelli di avvicinare il più possibile i margini della natura da una parte e della nostra volontà di potenza dall’altra.

L’errore, l’imprevisto, il malfunzionamento sono già intollerabili in natura, poiché fastidiosamente ci rinviano a cose alle quali non abbiamo voglia di pensare, come la morte e la fragilità di cui siamo fatti.

Figurarsi se si verificano in quegli strumenti che dovrebbero tenere queste cose sotto controllo.

Ecco il problema. Questo, più della finanza, è il nodo culturale su cui probabilmente si deciderà il futuro della nostra civiltà.

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