Il 12 giugno scorso Omar Mateen, ex guardia giurata di 29 anni, entro nel gay club Pulse di Orlando e aprì il fuoco sui presenti uccidendo 49 persone prima di essere ucciso dalle forze dell'ordine.
L'Isis rivendicò l'attacco. Dalle successive indagini emerse che l'uomo non faceva parte di nessun gruppo organizzato, era passato all'Islam radicale "in proprio", anche tramite la propaganda dello Stato islamico sul web.
E intanto alcuni familiari delle vittime dell'attentato hanno, per questo motivo, citato in giudizio Twitter, Facebook e Google per aver fornito supporto materiale alla propaganda dell'Isis e per aver radicalizzato Omar Mateen.
Come riporta La Repubblica, nel procedimento civile avviato nel distretto orientale del Michigan, le famiglie di tre vittime sostengono che le tre piattaforme web "hanno fornito al gruppo terroristico dell'Isis account usati per diffondere la propaganda estremista, raccogliere fondi e attrarre nuove reclute".
Secondo l'accusa senza questi colossi del web la crescita esplosiva dell'Isis degli ultimi anni non sarebbe stata possibile. Nella denuncia si parla anche dell'interpretazione di quanto previsto dal Communications Decency Act (CDA) del 1996 che finora è servito a proteggere i social media da eventuali responsabilità legate ai contenuti postati sulle loro piattaforme.
Molti avvocati sostengono che questi social, con i loro
algoritmi segreti, consentano di piazzare pubblicità legate alle informazioni degli utenti e condividano con l'Isis gli introiti pubblicitari. Finora i tribunali, comunque, non sembrano credere a questa accusa.
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