Trappola Conte finito in ostaggio degli alleati

La politica del post-voto è così: la nave di Conte va avanti, almeno in apparenza, sicuramente più stabile di prima, ma cinquanta-cento metri sotto si scorgono vortici e gorghi

Trappola Conte finito in ostaggio degli alleati

C i sono tratti di mare che hanno superfici piatte come l'olio, neppure increspati dalle onde, ma percorsi in profondità da correnti fortissime che da un momento all'altro potrebbero dar vita a mulinelli letali, capaci di inghiottirsi un bastimento. La politica del post-voto è così: la nave di Conte va avanti, almeno in apparenza, sicuramente più stabile di prima, ma cinquanta-cento metri sotto si scorgono vortici e gorghi. Ci sono partiti in piena ebollizione come il movimento 5 stelle e Forza Italia. Leadership che debbono ripensarsi come quella di Salvini. Pezzi di maggioranza insofferenti e delusi. E infine partiti, come il Pd, che si atteggiano a vincitori ma che nel giro di qualche tempo potrebbero scoprire di essersi solo illusi. Cartine di tornasole di tutto questo sono da una parte la staticità, non solo per temperamento, del premier, impossibilitato a dare una risposta alla tiritera «Mes sì» o «Mes no» e, addirittura, a dar vita al tanto profetizzato «rimpasto». «Se tocchi qualcosa è la risposta che ha dato a Zingaretti rischia di cadere tutto». Dall'altra una maggioranza di governo che più passano i giorni e più si accorge che l'idea di decidere in beata solitudine, il nome del prossimo Capo dello Stato, oltre ad essere ardua, potrebbe rivelarsi perigliosa. Non c'è solo il dato, non trascurabile, che l'opposizione controllando almeno 15 regioni su 20, potrà contare tra i grandi elettori su un bel gruppo di rappresentanti regionali, ma anche la constatazione che con il trascorrere dei mesi i grillini somiglieranno sempre più a una maionese impazzita. Per cui i tanti candidati con l'imprinting giallorosso Prodi e Franceschini, oppure Veltroni e lo stesso Conte da purosangue potrebbero rivelarsi dei ronzini.

Basta farsi un giro in Parlamento per prevedere l'evoluzione della corsa. «Se pensano di scegliere il prossimo Presidente da soli osserva il leghista Massimo Bitonci hanno sbagliato i calcoli. Quando ci sarà il rinnovo del Capo dello Stato, i grillini cominceranno a guardarsi attorno per trovare un'altra casa che li elegga: diventeranno un supermarket». Un rischio che dentro la maggioranza molti hanno calcolato. Tant'è che i più pragmatici immaginano un altro metodo. «Proprio perché quell'elezione può diventare un terno al lotto osserva il piddino Stefano Ceccanti proporremo un accordo su Mario Draghi». Un «realismo» che si ritrova pure nei ragionamenti di Matteo Renzi. «La strada giusta per il Colle ha spiegato ai suoi è quella di tentare una grande intesa con la destra. Io ho un nome in mente».

Lo spunto della corsa al Quirinale, al di là del fatto in sé, dimostra che sotto l'orizzonte calmo del mare della politica, le insidie non mancano. Non per nulla il premier, ormai avvezzo al linguaggio del Palazzo, si è guardato bene dal dire nel dopo-voto «sono più forte», ma si è limitato ad un'autorassicurazione: «Non sono in bilico». Più che una rivendicazione di potenza, è la fotografia di una condizione contingente. La verità è che la vittoria del Sì ha fatto venir meno le residue possibilità del voto anticipato: l'unica che ne parla ancora, solo per rito, è la Meloni. Ma il venir meno di questa opzione, oltre a privare di una bandiera l'opposizione, ha tolto al premier l'arma più formidabile per tenere a bada la propria maggioranza: la legislatura è blindata; lui, invece, i prossimi due anni se li dovrà sudare. E questo in uno scenario in piena evoluzione: nella maggioranza come nell'opposizione.

Il movimento 5 stelle, cioè il principale partito di governo, è diventato una polveriera. Conte non è che non voglia il Mes, anzi, ma è paralizzato da quello che potrebbe provocare nel movimento. Di Maio con lui è stato chiaro: «Questo potrebbe essere davvero il tema su cui Alessandro (il Dibba, ndr) potrebbe rompere con noi». Un'espressione generica per esorcizzare l'ipotesi di una scissione che come un fiume carsico nei pourparler grillini, appare e si inabissa, sempre con il pudore di non chiamarla mai per nome. Osserva Stefano Fassina di Leu, che li frequenta molto: «Non capisco perché Zingaretti sparga il sale del Mes sulle ferite del movimento. È un argomento che per Di Battista potrebbe valere una scissione».

D'altro canto, non fare il Mes, specie per un puntiglio ideologico, fa partire il confronto sul Recovery Fund sotto i peggiori auspici, offre l'immagine di un esecutivo paralizzato e mette sotto stress gli altri partner della maggioranza. Tanto più che anche se Zingaretti gongola sul fatto che grazie alla vittoria in Toscana e in Puglia l'ha scampata bella, gli osservatori obiettivi ammettono che i dati elettorali del Pd non sono così entusiasmanti. A riguardo un'annotazione di Michele Emiliano è alquanto esplicativa: «Non è che tutti quelli che hanno votato per me, voteranno Pd. Per me hanno votato anche dei leghisti che alle politiche torneranno a votare Lega».

Lo «stress» del Pd sulla staticità del governo, in Italia Viva, poi, si trasforma addirittura in una nevrosi. I renziani speravano nell'ipotesi di «un rimpasto», che proprio per la delicatezza del quadro generale, Conte e Zingaretti hanno messo da parte. Restano gli argomenti programmatici: è probabile che nelle prossime settimane Renzi, con il peggiorare della condizione economica del Paese, farà salire la tensione su Mes o reddito di cittadinanza. Anche perché tra i suoi lo scontento cresce. «Noi spiega Michele Anzaldi dovremmo porre la questione del Mes per gettare benzina tra i 5 stelle. Al costo di arrivare alla crisi».

Tensioni su tensioni che ritrovi anche nell'opposizione. E le incognite aumentano. La Lega, ad esempio, sta mutando piano piano strategia. La decisione di Salvini di dar vita ad una segreteria è un altro segnale. E se il «muro contro muro» leghista, chiuso ad ogni ipotesi alternativa all'attuale quadro politico, è stato uno dei punti di forza della strategia di Conte fino ad oggi, la nuova linea potrebbe rivelarsi più insidiosa per il premier. Come pure il dibattito sempre più teso dentro Forza Italia, e le sue conseguenze, potrebbero mettere in moto dei processi nello scenario politico. «Un deputato forzista confida Enrico Costa, da poco ex azzurro passato con Calenda mi ha sussurrato che ad una delle dirigenti di primo piano del partito, Ghedini, avrebbe detto: Non avete capito che vi dovete trovare un lavoro». «Noi spiega la Ravetto - avevamo un Peron. Ora, però, è più distaccato e tra le tante donne di Forza Italia non abbiamo una Evita». «Abbiamo solo due strade racconta Gianfranco Rotondi : o ricostruiamo un grande partito cattolico con Conte (c'è un susseguirsi di riunioni di superstiti della Dc sul tema, ndr); oppure mettiamo in piedi un nuovo soggetto politico con la Meloni».

Con lo scenario politico che muta, è evidente che un premier oggi «non in bilico», domani potrebbe esserlo. Tant'è che nei ricorsi elettorali, arrivati a maturazione in Senato, c'è uno scontro su ogni situazione per evitare che l'ingresso di questo o quel nome cambi gli equilibri.

Raccontano che, fiutata l'aria, una vecchia volpe come il Presidente della Lazio, Claudio Lotito, in gioco per uno scranno, ha rassicurato tutte le sette Chiese: se eletto ha promesso a Fratelli d'Italia l'adesione, come pure a Forza Italia; a Italia Viva ha spiegato che andrà al gruppo misto; al Pd ha, invece, assicurato che se il governo andrà in «bilico» (l'espressione è ormai di moda) si assenterà dall'aula.

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