Milano - Si può restare in carcere per colpa di una «e»? Può una lettera dell’alfabeto, una congiunzione mancante, cambiare il senso di una frase e decidere della sorte di un uomo? Il tema fa irruzione sulla scena già affollata del crac del San Raffaele, l’ospedale di don Verzè arrivato sull’orlo del dirupo finanziario e oggetto di una inchiesta che ha rivelato scenari sorprendenti. Che al San Raffaele ne accadessero di tutti i colori è verità dolorosa ma accertata. Due dei presunti responsabili, Luigi Verzè e Mario Cal, sono morti nel frattempo. Ieri si è aperta l’udienza preliminare a carico degli indagati superstiti, quelli che la Procura vuole processare per concorso in bancarotta fraudolenta. Qui salta fuori l’inghippo che trasforma l’affaire San Raffaele da caso giudiziario a materia da linguisti. E che fa sbottare Gian Piero Biancolella, avvocato dell’uomo condannato da una «e», in una battuta amara: «Vuol dire che invece che in Cassazione farò ricorso all’Accademia della Crusca...».
La vittima della congiunzione mancante è un uomo che fino a pochi mesi fa quasi nessuno conosceva e di cui oggi si fa un gran parlare. Piero Daccò si considera un imprenditore ma nei giornali viene più sbrigativamente etichettato come faccendiere. È un grande amico di Roberto Formigoni, con cui trascorreva vacanze di cui anticipava le spese. Con la sanità lombarda ha fatto i soldi, spartendoli con un altro amico di Formigoni, l’ex assessore ciellino Antonio Simone, grazie alle consulenze per il San Raffaele e per la Fondazione Maugeri. Per i soldi ricevuti dal San Raffaele Daccò è in galera dal novembre scorso. Dove sembra resistere bene, almeno a giudicare dal tono brillante e quasi scanzonato dei suoi ultimi interrogatori.
Ieri mattina udienza preliminare per decidere la sorte di Daccò e degli altri sei per cui la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio. E qui arriva la sorpresa. Biancolella, avvocato di Daccò, si alza e spiega al giudice Maria Cristina Mannoci che la richiesta di rinvio a giudizio presentata dai pm è nulla. Motivo: Daccò, dopo la fine delle indagini preliminari, aveva chiesto di essere interrogato. È un diritto degli indagati. Ma Daccò non è mai stato interrogato. Non ha mai potuto dare la sua versione dei suoi affari con il San Raffaele. Per questo i suoi difensori chiedono che la richiesta di rinvio a giudizio sia annullata. Il processo non ne subirebbe gravi danni: basterebbe interrogare finalmente Daccò e chiedere nuovamente il processo. L’unica conseguenza concreta è che scadrebbero i termini di carcerazione preventiva e l’imprenditore-faccendiere verrebbe scarcerato (resterebbe comunque in cella per la vicenda Maugeri: ma questo è un altro paio di maniche). Ma il giudice Mannoci dice di no. Motivo: la richiesta di essere interrogato non era stata formulata abbastanza chiaramente. Mancava, per l’appunto, una «e».
La memoria depositata dai difensori di Daccò porta la data del 10 aprile scorso, e solleva una serie di obiezioni alla Procura: soprattutto la quantità impressionante di omissis con cui sono stati chiazzati i verbali dell’inchiesta messi a disposizione degli indagati, rendendo pressoché impossibile l’attività difensiva. Quindi i legali chiedono il deposito integrale e un nuovo avviso di fine indagini «onde consentire all’indagato il pieno ed effettivo esercizio del proprio diritto di difesa e delle facoltà previste dalla norma in parola, tra cui quella di rendere interrogatorio, di cui si avanza comunque sin d’ora formale richiesta».
Chiaro? No.
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