Vespa, Fazio e Conti quasi fuori dalla Rai

Il cda ufficializza il tetto agli stipendi. Solo il governo può salvarli

Vespa, Fazio e Conti quasi fuori dalla Rai

Il consiglio di amministrazione della Rai ha confermato il tetto agli stipendi delle star tv, come stabilito nella legge di riforma dell'editoria. Ora solo un decreto del governo potrebbe salvare la Rai dalla fuga della sua prima linea, molto probabilmente indisponibile ad abbassare il proprio compenso sotto la soglia dei 240mila euro. Parliamo, tanto per capirci e come esempio, di gente come Fabio Fazio e la sua squadra, la Clerici e, nel campo dell'informazione, Bruno Vespa.

La decisione è figlia di due fattori: la paura e la demagogia. La paura, dei consiglieri, è quella di dovere un domani rispondere in proprio, cioè con il patrimonio personale, di danni erariali che la Corte dei Conti potrebbe loro contestare. La demagogia è invece la malattia del nostro tempo, in questo caso un mix tra invidia sociale e patetico tentativo di assecondare l'onda dell'anti-casta che ha nei grillini i principali interpreti.

Cominciamo con il dire che le «star» della Rai non guadagnano tanto, ma tanto quanto il libero mercato dell'intrattenimento televisivo li valuta. Cioè guadagnano - salvo eccezioni sempre possibili - il giusto. Chi sostiene il contrario è solo divorato dall'invidia, dal rancore e dal devastante principio che dobbiamo essere tutti uguali. Aggiungiamo poi che, per quanto si risparmi su queste eccellenze, parliamo di cifre apparentemente importanti, ma talmente modeste che non un solo euro in più potrebbe finire nelle tasche dei pensionati al minimo o nelle necessarie ristrutturazioni di scuole e ospedali. Ma c'è di più: una simile decisione non farebbe che arricchire ancora di più dei privati già molto benestanti (gli editori di Mediaset, La7, Discovery e via dicendo) ai quali gli esodati Rai si offrirebbero con super sconto.

Ma a parte il destino di questi signori, che ovviamente non ci toglie il sonno, un livellamento al ribasso della Rai snaturerebbe la sua attuale duplice identità di tv pubblica e tv di mercato.

Se si sceglie la prima opzione, che senso avrebbero oltre diecimila dipendenti, perché strapagare i produttori di Don Matteo o di Montalbano, perché produrre il Festival di Sanremo? Tanto varrebbe vendere reti e frequenze, fare cassa davvero e ritirarsi nella ridotta del canale unico al servizio del premier di turno. Altro che «prima azienda culturale italiana». Qui si sta andando verso «Tele Palazzo Chigi».

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