Anche gli editori hanno smesso di credere nei libri

di Luca Doninelli
Uno scrittore di oggi, a meno che non sia molto in là con gli anni, non può essersi fatto, se non per sentito dire, un’idea di cosa fossero gli editori italiani molti anni fa. Me ne parlava sempre una firma storica di questo giornale, il critico Geno Pampaloni. Le case editrici erano luoghi di vera produzione di idee prima ancora che di libri, con direttori editoriali e di collana intorno ai quali si stringeva il fior fiore dell’intellettualità. Tra i grandi nomi della cultura italiana del Dopoguerra una gran parte - Pavese, Vittorini, Bassani e così via - risultava in forza a qualche casa editrice.
Né io né alcun altro scrittore italiano può, oggi, provare nostalgia per qualcosa che non ha conosciuto di persona. Se affiora il ricordo di discorsi sentiti molti anni fa è perché nulla è così opposto a quell’immagine come l’editoria odierna. Quella che segue è una breve riflessione, senza voler puntare il dito contro nessuno, su un’attività che, nella cultura contemporanea (che è quella cosa che risponde alla domanda: cosa fa cultura oggi?), sta diventando sempre più marginale: il fare libri.
Libro di bordo, libro mastro, libro nero, libro bianco, religioni del Libro, libro dei sogni, libro contabile, libro paga, libro dei morti, essere come un libro aperto, parlare come un libro stampato, libro della natura, libro del destino. Sono alcune delle molte locuzioni che ci ricordano l’importanza dei libri nella nostra civiltà.
I libri ci hanno trasmesso il sapere, rendendo possibile il passaggio delle conoscenze di una generazione alle nuove generazioni. Ci hanno trasmesso i valori che hanno temperato la nostra natura bestiale. Hanno conservato i testi detti Classici sui quali, per consenso generale, si fonda la civiltà alla quale apparteniamo: dalla Bibbia a Omero, da Dante a Shakespeare, da Aristotele a Nietzsche.
Tutto questo è possibile finché una società conserva la stima per i libri. Quando questa stima si smarrisce, addio classici, addio libri bianchi e neri, addio libro del destino. Se non esiste qualcosa che viene prima dei libri - il sentimento vivo e presente del significato e del valore del passato - la loro semplice esistenza si colora di assurdo, come la Biblioteca di Babele immaginata da Borges. Questo sentimento è stato sostenuto dalle ideologie, di cui si è detto un gran male ma che si consideravano in ogni caso dei veicoli (pessimi finché si vuole) di civiltà. Dopo la loro caduta, nessuno si è sostituito.
Da anni insegno all’università, e da anni mi stupisco di vedere le mani degli studenti cariche quasi sempre solo di fotocopie. Lo scorso anno ho partecipato, presso un’università, a un convegno dedicato a un anziano scrittore milanese. Un docente volonteroso aveva preparato con un gruppo di ragazzi una serie di letture dai testi di questo autore, che i ragazzi, uno per volta, uscivano a leggere al microfono. Nessuno di questi ragazzi aveva in mano un libro, ma solo fotocopie. L’autore, presente, non era molto contento. Lo informai che oggi ci si può perfino laureare senza avere aperto un solo vero e proprio libro.
Guardo i testi sui quali ho studiato all’università, ancora ben allineati nella mia biblioteca: Platone, Aristotele, S. Agostino, S. Tommaso, Cartesio, Kant, Hegel, Wittgenstein, Heidegger. E penso che la mia vita sarebbe diversa se, anziché sui libri, avessi studiato sulle fotocopie. Quei libri, adesso, non ci sarebbero, e la mia memoria sarebbe più corta, e la memoria più corta rende più corto anche il desiderio di conoscere cose nuove.
Già a scuola, e soprattutto all’università, questa stima viene presa a picconate: là perché gli insegnanti non sono più autorevoli, qui perché gli insegnanti ci mettono del loro. Le case editrici si trovano così a lavorare in un mondo poco interessato al loro prodotto.
Molti anni fa era normale per tutti che stampare libri fosse un’attività in perdita, anche perché la stima per i libri era diffusa nella società, e il mercato era imprevedibile ma ampio, senza margini. Ma in una società indifferente al valore dei libri questo non è più possibile, occorre creare nicchie di mercato e poi allargarle piano piano, finché si può.
Così i lettori sono diventati non più un indice credibile degli umori della società, ma un mondo a parte, e i libri, tranne rari casi, non la rappresentano più. Se il mercato è ristretto, l’interesse va creato. Perciò l’editore diventa sempre meno un intellettuale e sempre più un esperto di mercato.
Un effetto di questo stato di cose è il crollo verticale delle traduzioni di libri importanti, e non solo di saggistica, ma che hanno la disgrazia di non essere dei (presunti) best-seller. Geno Pampaloni mi diceva che ai tempi suoi per gli scrittori la casa editrice era una vera e propria casa. Bene, adesso non è così. Non c’è posto dove uno scrittore si senta meno a casa propria di una casa editrice. L’attività è frenetica, il personale è poco, e il tempo di costituire cenacoli filosofici o letterari o politici non c’è. È molto raro (per non dire impossibile) incontrare in una casa editrice qualcosa di simile a un’autorevolezza culturale, a un punto di dialogo, di scambio di idee.
Del resto i libri sono un prodotto da vendere, e spesso gli autori si mettono di traverso, con le loro manie. Se gli autori non ci fossero e i libri potessero essere prodotti direttamente dagli editori (che sanno come si confeziona un libro per il nostro mercato) le cose andrebbero molto meglio. Se gli scrittori smettessero di credersi autori di qualcosa e diventassero degli esecutori al servizio di un progetto collettivo chiamato Vita di Napoleone (oppure Antropologia della globalizzazione oppure Mia cugina Fernanda, fate voi) le cose andrebbero molto meglio. Avremmo prodotti sempre all’altezza del mercato.
Da ultimo. In una società che non crede più nei libri (università inclusa) gli editori sono costretti a crederci, se non altro perché li fanno. Ma che significa credere nel libro? Chi lavora in una casa editrice oggi ha pressappoco gli stessi problemi di tutti quelli a cui i libri non interessano, fa la loro stessa vita, guarda gli stessi film e gli stessi programmi tv, e così via. Spesso quella di credere nel libro appare tutt’al più una specie di ostinazione personale.
La fede nel libro è rimasta, secondo me, soprattutto nei cosiddetti piccoli editori. Il loro è un mondo disordinato ma vitalissimo e pieno di persone coraggiose. Nel nostro tempo è soprattutto nell’impegno di alcuni tra loro che si specchia la volontà, grazie a Dio non ancora morta, di trattenere attraverso il libro una porzione più vasta di memoria.

Non per tornare al passato, ma per permettere al passato di rispondere alle sollecitazioni del presente. So bene, infatti, che una copia della Divina Commedia sarà reperibile sempre, ma temo il giorno in cui la Divina Commedia non risponderà più a nessuna domanda.

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