Il cacciatore di autoritratti che ha scovato Leonardo

Un giovane storico dell’arte cerca il vero volto dei pittori all’interno dei loro dipinti, dal Parmigianino a Lippi

Il cacciatore di autoritratti  che ha scovato Leonardo

Avete presente i cameo dei registi nei propri film? Bene, una cosa molto simile accadeva anche nella pittura. A rivelarlo è Mauro Di Vito, 35 anni, pavese, storico della scienza e dell’arte. «Un po’ per lasciare traccia di sé ai posteri, un po’ per firmarle, un po’ per narcisismo e un po’ per tradizione, gli artisti amavano comparire nelle pitture di storia, quelle che raccontavano un episodio delle Sacre Scritture». Questa scoperta, che appartiene agli enunciati che sino a oggi nessuno ha messo nero su bianco della storia dell’arte, ha consentito a Di Vito di mettere assieme nel giro di pochi mesi una sorprendente galleria di autoritratti, cavati da tele e affreschi. Restituendoci il volto di grandi maestri dell’arte italiana, in opere magari celeberrime, ma che sinora non erano state ancora osservate da questo punto di vista.

La «galleria» dello studioso lombardo si è ampliata molto rapidamente. Correggio, Parmigianino, Vincenzo Foppa, Luca Cambiaso, il Pordenone, Perin del Vaga, Dosso Dossi, Lorenzo Lippi, Cima da Conegliano, Bramantino, Bramante, Gaudenzio Ferrari, Daniele Crespi. Su tutti, il nome che fa tremare i polsi degli storici dell’arte per antonomasia: Leonardo. «L’apostolo Taddeo del Cenacolo è in realtà un autoritratto». Nel 1984 Mario Carpiceci, nel catalogo di una mostra all’Ateneo di Brescia, scriveva che Leonardo nel Cenacolo propone ben quattro volte la propria immagine: idealizzata in Filippo, deformata in Giuda, invecchiata in Taddeo e ritratta realmente nel Bartolomeo.

«Io mi baso esclusivamente su una regola pressoché universale - spiega Di Vito -, testimoniata da centinaia di altri autoritratti noti: un personaggio inserito in un dipinto, che guarda verso l’esterno e indica o gestisce con una o due mani verso di sé o verso la scena, è quasi sempre identificabile con un autoritratto del pittore. L’unico tra tutti gli apostoli del Cenacolo a guardare verso l’esterno è san Taddeo, neppure Cristo ha occhi diretti verso l’esterno, ma guarda verso il basso. Ciò si deduce non solo da uno studio ravvicinato del dipinto, ma anche dall’analisi delle copie. Il personaggio ha due mani visibili: la destra, che è sollevata all’altezza del petto, punta le dita verso di sé come a dire: “Io l’ho fatto”». E in effetti la somiglianza del volto di Taddeo con il disegno di Torino che viene ritenuto un autoritratto di Leonardo è molto marcata.

Nel 2009, in occasione del restauro dell’Adorazione dei Pastori di Caravaggio, Di Vito aveva scritto, per il catalogo curato da Valeria Merlini, un testo in cui metteva a sistema tutti gli autoritratti, noti e inediti, del Merisi. «Da allora non ho smesso di arrovellarmi sul tema. Anche perché sembrava fosse solo Caravaggio ad autoritrarsi così frequentemente». E invece sono emersi anche esempi più antichi, per una pratica che era in realtà in voga sin dal Medioevo. Ed è curioso che gli studi dell’ultimo secolo abbiano trascurato la trattatistica, da Leon Battista Alberti a Vasari e Bellori, in cui si parla esplicitamente di autoritratti nascosti nelle tele e della figura degli intermediari, ossia di quei personaggi che nel dipinto sono raffigurati con l’intento esplicito di richiamare l’attenzione dello spettatore, con sguardi e gesti. «Gli artisti amavano appunto tenere per sé il ruolo dell’intermediario, facendo da tramite visivo tra la scena e la dimensione spazio-temporale dell’osservatore».

Ma come riconoscere un autoritratto? Un volto che lancia uno sguardo piuttosto intenso verso lo spettatore è la prima spia. Anche perché quell’intensità potrebbe spiegarsi con l’utilizzo di uno specchio nell’atto stesso del ritrarsi. E poi è importantissima la retorica gestuale; mani che indicano la scena, o se stessi. O la scelta di abiti borghesi o da pittore che differenziano il personaggio da tutti gli altri che invece vestono costumi storici. E poi di volta in volta piccoli segnali: una freccia di san Sebastiano tenuta in mano come un pennello, la cui punta perde sangue come se fosse intinta nel colore rosso, armi come lance o spade, che sostituiscono il pennello, con lo scambio semantico dell’arma retorica con quella bellica... E ancora, le carte da gioco della primiera tenute come una tavolozza, come nel baro in cui Di Vito ha rinvenuto l’unico autoritratto a oggi conosciuto di Georges De la Tour. «Chiunque riconosce un autoritratto nella figura che guarda verso l’esterno nell’Adorazione dei Magi di Botticelli agli Uffizi. Mi chiedo allora perché non si possa applicare transitivamente questa regola di identificazione in altre figure in posa analoga».

Ma cosa cambia alla luce di questa scoperta? In alcuni casi, si può arrivare a mettere in discussione l’attribuzione o la datazione di un’opera, perché l’autoritratto non torna con lo stile di quel pittore, con la sua fisionomia nota o con l’età che

dovrebbe dimostrare in quel dato momento della sua vita. Di Vito ha già nel suo carnet più di un esempio in questo senso.

Di quelli che, forse, potrebbero obbligare a riscrivere alcune pagine dei manuali di storia dell’arte...

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