Per capire la nostra epoca meglio evitare i romanzi

Per capire la nostra epoca meglio evitare i romanzi

Hanno ragione quelli del Pulitzer, che hanno deciso di non assegnare il premio alla narrativa, ritenendo non ci fossero titoli capaci di rappresentare l’età in cui viviamo. Tra i bocciati, c’è anche The Pale King, il romanzo postumo di David Foster Wallace, accanto a Train Dreams di Denis Johnson e Swamplandia! di Karen Russell. L’America, e - aggiungo - il mondo anglofono in generale, non hanno prodotto ultimamente una narrazione capace di afferrare la complessità del tempo presente. Lo stesso vale per molte altre letterature, compresa secondo me quella che si esprime nella lingua di Dante, e di cui faccio parte anch’io.
Da qualche anno, pur continuando ad amare la letteratura narrativa, le mie abitudini di lettore si sono spostate sempre più decisamente verso le opere saggistiche. Leggere romanzi si è trasformato per me, insensibilmente, in un’attività specialistica, professionale, non più in una passione incondizionata dell’anima. Non parlo, va da sé, di tutti i romanzi, ma solo dei romanzi che si producono oggi, perché quanto a Guerra e Pace lo potrei rileggere fino alla fine dei miei giorni (credo anche che lo farò). Certo, continuo a scrivere narrativa (anche se in modo meno esclusivo di un tempo), e soprattutto continuo a crederci. C’è però qualcosa che non va, una rotellina dev’essere uscita dalle guide. E non riguarda soltanto le mie sensazioni personali.
Dico subito che di romanzi belli ce n’è anche oggi. Recentemente ho letto La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides, e l’ho trovato molto bello. Ma il mio modo di leggerlo è cambiato rispetto a quando lessi - per rimanere sullo stesso autore - Le vergini suicide. Benché sia un romanzo, lo leggo come se fosse un saggio. Lo stesso mi è accaduto, un anno fa, con Libertà di Jonathan Franzen. Franzen, com’è noto, scrisse negli anni Novanta un capolavoro, Le correzioni, cui seguì un periodo di relativo silenzio. Da questo silenzio lo scrittore è uscito, appunto, con Libertà che io ho letto fino in fondo con curiosità non per l’esperienza letteraria che (non) mi dava, ma solo per la conoscenza che ne ricavavo sul mondo di cui il romanzo parla. In sostanza: ho l’impressione che in questi anni la produzione saggistica, in tutti i campi, superi di gran lunga per qualità quella narrativa. Nessun romanziere italiano ha scritto ultimamente un libro che si avvicini, per potenza di idee e follia di scrittura, a Il capitalismo (Marsilio) di Geminello Alvi.
Qualcuno mi dirà: il romanzo non si occupa di idee, ma di fatti. Invece no: il romanzo moderno è nato esattamente per non decapitare i fatti in un’epoca in cui le storie si compromettevano con la complessità sociale, con la forza delle idee e con quella del potere. Niente idee, niente romanzo: con buona pace dei paladini dell’intrattenimento. Più precisamente: ho l’impressione che il romanzo, di cui abbiamo mantenuto i contorni, non sia più in grado di fornirci una narrazione del tempo in cui viviamo. C’è «racconto», ma non «narrazione»: questo è il problema. Per racconto intendo un'affabulazione centrata su uno o più avvenimenti legati tra loro, in modo da delineare un destino. Un racconto è tanto più bello quanto maggiore è la forza linguistico-emotiva con cui viene fatto circolare. Per narrazione intendo, invece, la capacità del racconto di trasmetterci una certa immagine del mondo, del tempo presente, attraverso un apparato simbolico che conferisca al racconto un valore universale. La narrazione si avvale del racconto ma il suo obbiettivo va molto oltre il racconto: dobbiamo poter scoprire nelle vicende narrate un punto di congiunzione tra il tempo, la storia e il senso (o la mancanza di esso) che balena dietro di esse. La narrativa di oggi è ricca di racconti ma povera di narrazione. Dev’essere la condizione post-moderna, come diceva Lyotard. O qualcos’altro. In questo modo, sia quello che sia, il romanzo perde autorevolezza, ed è forse per questo che, non potendo fare esperienza, per suo mezzo, del tempo presente, ripiego sugli aspetti conoscitivi che il racconto mi può fornire (società, caratteri individuali, abitudini di vita, geografia, geopolitica, paesaggio urbano ecc.), ossia sull’aspetto intellettuale della lettura che io preferisco in ogni caso a qualunque emozionalismo acefalo.
Va detto che, romanzi a parte, la narrazione continua a esistere. La si può trovare, sparsa qua e là, per esempio nel cinema, o nelle arti figurative e performative. Alcune opere dei controversi Damien Hirst o Maurizio Cattelan - per non parlare dei maggiori, come Kiefer o Richter - possiedono la forza di un emblema universale, di un grido capace di attraversare il mondo. Al cospetto di certe loro opere possiamo dire: sì, è proprio così. È ciò che Aristotele chiamava verosimiglianza. Non so perché tutto questo sia accaduto, so che è accaduto. Alcuni anni fa il compianto Giovanni Raboni sentenziò in tono burbanzoso che il romanzo era morto. Io non arriverei a tanto. Tuttavia è vero che il romanzo odierno non è più una luce accesa sul mondo: nei casi peggiori è un prodotto industriale per l’intrattenimento, in quelli migliori svolge una finzione lunare, troviamo cioè in esso un «riflesso» del mondo, non «il» mondo. Secondo me dire che, semplicemente, i tempi sono cambiati non è sufficiente. Chi ha a cuore il romanzo - mi riferisco in primis, ovviamente, ai narratori e in particolare a me stesso - deve cercare una via per ricucire lo strappo tra racconto e narrazione, o se vogliamo, tra emozione e conoscenza.

Non è un problema di teoria letteraria, ma di antropologia. Il romanziere deve tornare, come Diogene con la lanterna, a cercare l’uomo. O - come il folle di Nietzsche che tiene la lanterna accesa in pieno giorno - a cercare Dio. Che è lo stesso.

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