Cercando il senso della Storia (se ce n'è uno)

La storia, come afferma Cicerone, è magistra vitae? Oppure, come sostiene Montale, non insegna nulla? Dalla lettura del saggio di Pietro Rossi Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila (Il Mulino), emerge l'idea che sia impossibile decidere in modo definitivo per l'una o l'altra tesi.
Rossi ci mostra come sia possibile vedere il senso tragico ed effimero della Storia se si posa lo sguardo sugli ultimi tre secoli e come, questo guardare, imponga alla fine una conclusione pessimistica. Dal '700 a oggi si sono delineate nella coscienza europea varie idee, tutte destinate a essere superate e sostituite in una sequenza priva di risoluzione: la Storia intesa come processo ascendente nel quale nulla viene perduto perché il popolo più evoluto del momento riassume in sé, in una sintesi superiore, il meglio di tutti popoli passati (Hegel); come espressione della razionalità umana e dunque, illuministicamente, come camino verso la civiltà (Voltaire, Turgot, Fergusson, Rousseau, Kant); come piano della Provvidenza divina per la salvezza degli uomini (Vico e Lessing); come scoperta romantica della personalità dei popoli (Herder); come sviluppo privo di rotture (Comte e Spencer); come emergenza di soggetti specifici: il proletariato, la patria, la nazione (da Mazzini a Marx); come supremazia, e poi declino, dell'Occidente (Spengler); come crisi e rifiuto della modernità (Horkheimer e Adorno). Ma qual è l'interpretazione giusta?
Ciò che soprattutto emerge dall'opera di Rossi è il significato della parabola di senso iniziata da Cartesio e approdata con Nietzsche a un nichilismo distruttivo, ovvero il passaggio dalla dimensione della certezza a quella del disincanto, dall'ottimismo sette-ottocentesco al pessimismo novecentesco, riassumibile, rispettivamente, nell'idea di progresso e nell'idea di decadenza. La pretesa di aver capito in quale direzione sarebbe andata la Storia è stata una logica conseguenza dell'inganno progressista, figlio della visione ideologica del mondo, la quale ha creato nell'800 uno spartiacque della modernità dividendo lo svolgimento storico fra una destra espressione del passato (arretratezza, conservazione, chiusura) e una sinistra espressione del futuro (avanzamento, novità, apertura).

S'è assistito così alla trasformazione della dicotomia vero/falso nella dicotomia progressivo/reazionario. L'homo ideologicus, infatti, non è interessato a sapere se le cose sono vere o false, giuste o sbagliate, ma se sono progressive o reazionarie. Di qui errori a non finire.

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