Costretto a convivere con i comunisti e vedendoli all'opera, Bisagno aveva capito tutto del disegno politico del Pci. Diceva: «Quelli come Miro e Attilio vogliono prendersi per intero il potere in Italia. E consegnare il nostro Paese ai sovietici perché ne facciano la provincia occidentale dell'impero di Stalin. Dovremmo rompere subito con loro. Ma questo servirebbe soltanto a spaccare le unità partigiane. E non possiamo farlo per rispetto dei tanti ragazzi che abbiamo portato a morire». (...)
Il comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, aveva deciso di rendergli la vita difficile. Bisagno sapeva di essere guardato a vista da occhi malevoli. I suoi messaggi ai comandanti delle brigate erano intercettati e letti dal Sip, diventato un'occhiuta polizia rossa. Il comandante della Cichero si trovò costretto a dormire con la rivoltella sotto il cuscino e una baionetta sotto il paglione. Temeva una manovra ai suoi danni e persino di essere ucciso.
La manovra emerse con chiarezza alla fine di febbraio del 1945, quando il Comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, decise di togliere a Bisagno la Cichero e di inviarlo, da solo, in un'altra area della Liguria, a Ponente. Il motivo inconfessabile era evidente: Aldo Gastaldi rappresentava l'unico concreto ostacolo all'egemonia del Pci in Val Trebbia e, di riflesso, alle strategie da attuare dopo la fine della guerra.
La decisione doveva essergli comunicata in un incontro previsto per il 28 febbraio, ma Bisagno non si presentò. Venne fissata una nuova data, il 3 marzo, e poi una terza, il 7 marzo, a Fascia, un minuscolo paese dell'Appennino, a mille metri d'altezza. Questa volta Bisagno si fece vivo ed ebbe una discussione molto accesa con l'apparato comunista della Sesta zona. Ma ad affiancarlo c'erano due distaccamenti della Cichero. Avevano le armi imbracciate ed erano pronti a sparare. Il Comando di zona se ne andò con la coda tra le gambe, rinunciando a quel golpe interno.
Tuttavia l'atto finale della crisi doveva ancora andare in scena. Il 29 marzo 1945, tre comandanti di divisione, ossia Bisagno, Scrivia e Antonio Zolesio, delle Brigate Giustizia e Libertà-Matteotti, inoltrarono al Comando generale del Corpo volontari della libertà un documento molto duro nei confronti dei quadri comunisti della Sesta zona. Accusati di voler trasformare le bande della Garibaldi in altrettante unità di partito.
Tra le richieste avanzate a Milano ce n'era una che, agli occhi di Luigi Longo e di Pietro Secchia, dovette sembrare eversiva. Era quella di «abolire i commissari politici che non si curano d'altro se non di svolgere attività politica di partito». La conclusione del documento domandava di costituire un nuovo Comando di zona separato da quello esistente. Bisagno si era deciso a un passo tanto rischioso nella convinzione che subito dopo la fine della guerra civile il Pci avrebbe tentato di impadronirsi del potere con un colpo militare. Ecco perché, alla vigilia dell'incontro di Fascia, aveva detto a Scrivia, l'amico fraterno: «Un giorno dovremo vergognarci di essere scesi a Genova alla testa dei comunisti». Me lo rivelò lo stesso Scrivia quando stavo preparando la tesi di laurea. Ma la richiesta dei tre comandanti rimase senza risposta. Il Pci era ormai troppo forte, anzi era il partito più forte del fronte partigiano. (...)
Ebbe inizio così l'ultimo tempo della giovane vita di Aldo Gastaldi. Nel novembre del 1944, Bisagno aveva accolto nella Cichero un gruppo di alpini che avevano lasciato la Monterosa, una delle divisioni della Rsi. Appartenevano al Battaglione Vestone, schierato in Val Trebbia. Gli aveva promesso che, finita la guerra, li avrebbe accompagnati nei loro paesi, attorno a Riva del Garda, in provincia di Trento. Per evitare che li arrestassero come militari fascisti.
Bisagno mantenne l'impegno. Il 20 maggio 1945 partì da Genova con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen, carichi di alpini. Con lui c'erano due suoi partigiani e un autista che di solito guidava le corriere in servizio tra la Val Trebbia e Genova. Arrivati a Riva del Garda e dopo aver salutato gli alpini, Bisagno si fermò a dormire lì. Il mattino successivo si rimise in viaggio, sempre sullo stesso camion e con il medesimo equipaggio.
Durante il ritorno, così venne raccontato, decise di salire sul tettuccio della cabina dell'autocarro. Una decisione assurda e inspiegabile per un comandante avveduto qual era lui. Nei pressi di Desenzano del Garda, il veicolo fu costretto a una brusca sterzata per evitare una colonna di prigionieri tedeschi sbucata all'improvviso sulla statale. Il comandante della Cichero venne sbalzato dal tettuccio e finì sotto le ruote posteriori del veicolo, che lo schiacciarono. Morì quasi subito all'ospedale di Desenzano. In settembre avrebbe compiuto ventiquattro anni.
Era stata davvero una disgrazia imprevedibile, come dichiararono sempre i partigiani che stavano con lui in quel viaggio? Oppure l'incidente nascondeva un delitto? Ancora oggi a Genova c'è chi sostiene la tesi dell'assassinio.
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