La diciottesima edizione americana di Art Basel, ovvero la fiera d’arte contemporanea Art Basel Miami Beach, conferma definitivamente il fatto che la manifestazione sia ormai senza dubbio alcuno la più importante al mondo di questo genere. 250 le gallerie internazionali presenti, per una fiera che - a detta di molti critici - tende ad avere sempre meno concetto e sempre più mercato.
I concetti però, a ben cercare, ci sono. Con una particolare attenzione a tematiche assolutamente attuali, il “segno dei tempi” che l’arte deve possedere, insomma: questioni come la migrazione umana, l’ecologia e l’ambiente, e l’identità di genere sono ricorrenti tra gli stand della fiera.
Abbiamo selezionato nove opere che vale la pena raccontare di questo Art Basel Miami 2019 (guarda la gallery).
Maurizio Cattelan – Comedian, 2019. Perrotin (Paris)
Dopo il giro di boa completato da Cattelan qualche mese fa con “America”, il suo cesso in oro massiccio (regolarmente funzionante), la sensazione che il cerchio si sia chiuso si fa ancora più forte. Cattelan ci sta trollando, questo è chiaro: e ci riesce benissimo, visto che la banana - destinata a diventare la seconda più famosa dell’arte, dopo quella di Andy Warhol sulla copertina dei Velvet Underground - è stata già venduta DUE volte per 120000 dollari cadauna. Non poco, considerata tra l’altro la deperibilità dell’oggetto. Perrotin, oltre a offrirci in vendita l’ultima copia (a un prezzo maggiorato: 150000 dollari) si rende complice del trolling ricordandoci che l’opera è serissima: “le banane sono un simbolo del commercio globale e un dispositivo classico dell’umorismo, e hanno quindi un doppio significato”.
Martin Wong – Untitled, c. 1986. P.P.O.W (New York City)
L’opera di Martin Wong è particolarmente significativa perché utilizza due dei simboli più frequenti nell’immaginario dell’artista, ovvero il cuore e i mattoni. Le scritte al centro dell’opera, in linguaggio dei segni (altro elemento ricorrente nelle sue opere), compongono la frase “Love for Sale”, ennesimo tentativo di Wong di inserire un afflato romantico all’interno delle sue rappresentazioni della crudezza della vita underground americana degli anni ottanta, fortemente vissuta in prima persona dall’artista cino-americano dai tempi del movimento hippie a Haight- Ashbury fino al periodo newyorkese, tra conflitti razziali e sociali, droga e scena queer dell’epoca.
Portia Munson – Her Coffin, 2016. P.P.O.W (New York City)
Ventidue anni dopo il suo Pink Project del 1997, l’opera di Portia Munson insiste nell’utilizzo di materiali plastici rosa di recupero decontestualizzati, e se all’epoca le indagini sull’identità di genere e sull’ambientalismo implicite nelle sue opere erano decisamente all’avanguardia, oggi sono più che mai attuali, rendendo giustizia a questa pervicace e coerente insistenza stilistica. L’opera, che prende spunto dalla pink ribbon campaign dedicata alla raccolta di fondi per la ricerca sul cancro al seno, intende rappresentare - tramite l’accumulazione di oggetti rosa che, dalle bambole ai dildi, indicano l’aspetto commerciale di questo colore - gli effetti cancerogeni delle materie plastiche: un’accumulazione quasi strabordante di oggetti che fanno di questa “bara” una capsula del tempo in cui ritrovare la bellezza e l’orrore dei nostri giorni.
Tatsuo Mjyajima – Pile up Life No.2. SCAI The Bathhouse (Tokyo)
Formazione da pittore, esordi come artista performativo, dal 1988 Miyajima fa della scultura e dell’installazione di LED la sua riconoscibilissima e originale forma espressiva primaria, indagando sul tempo, lo spazio, la natura e i mutamenti (naturali e non), visti da un punto di vista fortemente influenzato dal pensiero buddista. La serie “Pile Up Life” fa riferimento ad antichi monumenti commemorativi presenti in numerose aree tra l’Asia orientale e i continenti americani, associati al concetto buddista di vita eterna. L’opera, composta da pietre e LED, intende osservare come i grandi disastri naturali influiscano sulle vite umane, e rappresenta un requiem silenzioso per le anime perdute in queste catastrofi.
Teresa Margolles – Estorbo (Obstruction), 2019. Galerie Peter Kilchmann (Zurich)
L’installazione di Teresa Margolles è il risultato di una ricerca e di un percorso creativo peculiare: dopo essersi recata nelle zone di confine tra San Antonio de Tàchira (Venezuela) e San Josè de Cùcuta (Colombia) e aver intervistato centinaia di venezuelani in fuga dal loro paese alla ricerca di lavoro o sicurezza, l’artista ha acquistato le loro t-shirt, sporche e sudate a causa del loro lavoro presso la frontiera come “carretilleros”, e l’atto dellla svestizione è raffigurato nelle fotografie abbinate a ciascuno dei novanta blocchi di cemento presenti nell’istallazione. Le magliette vennero poi inserite nei blocchi di cemento nel contesto di una performance al Museo di Arte Moderna di Bogotà, dopo essere state utilizzate per sporcarne i vetri delle finestre, e le iniziali dei nomi dei profughi vennero scolpite in ognuno dei blocchi.
Cosmo Whyte - The Enigma Of Arrival, Carry On, 2017. (Los Angeles)
Con la serie The Enigma Of Arrival, Cosmo Whyte racconta la complessità della migrazione, attingendo anche alle personali esperienze da immigrato. Il suo particolare utilizzo di media differenti legati a culture e tempi diversi, giustapposti nelle singole opere, riflette la sua capacità di far dialogare differenti identità culturali, quasi si trattasse di un pidgin, una sorta di creolizzazione realizzata nelle sue opere. D’altronde l’autore è un nero del sud degli Stati Uniti, le cui origini sono però da ricercarsi nei Caraibi (è nato in Giamaica): i contesti storici delle due regioni hanno in comune una storia di oppressione coloniale europea e di tratta transatlantica degli schiavi. L’opera qui presente, costituita da sedili di aereo a rappresentare il viaggo intercontinentale e/o la migrazione, vede i medesimi rivestiti da antichi tessuti di epoca coloniale; sugli schienali si trovano dei centrini, caratteristici della cultura della Spagna Imperialista, e piatti di ceramica inglese vittoriana rotti (perché ogni invasione e conseguente migrazione porta alla perdita e alla distruzione) sono poggiati a terra, su un pallet da trasporto.
Simone Leigh – Cupboard IX, 2019. Luhring Augustine (New York City)
Conosciuta per le sue sculture, videoinstallazioni e performance sociali, Simone Leigh fa però della ceramica il suo media principale, per cui è particolarmente conosciuta. Combinando i suoi studi sulla ceramica americana con il forte interesse per i lavori tradizionali in argilla tipici dei paesi africani, di cui utilizza anche i motivi rileggendoli in chiave modernista, l’artista indaga sull'anatomia femminile come sull'architettura, e tende a vedere il corpo femminile stesso come un'architettura, in cui la donna è casa, o è vaso. Anche in quest’opera gioca su questi stereotipi - in questo caso con il vaso, che rappresenta la testa della figura - e rafforza il riferimento all’Africa e alla sua diaspora tramite l'utilizzo della rafia tipica dei cappelli africani per la creazione della gonna. Molto particolare il fatto che osservando l’opera di profilo il vaso perda di riconoscibilità, trasformandosi in una capigliatura afro: forme archetipali tipiche di una cultura che cambiano totalmente senso e contesto pur restando uguali a sé stesse.
Betye Saar – Gliding Into Midnight, 2019. Roberts Projects (Los Angeles)
Betye Saar, leggendaria assemblage artist afroamericana, rende omaggio con le sue mani di 93 anni alle mani degli antenati. Dal blu cobalto (colore ricorrente nella sua opera, il cui doppio significato in inglese relativo anche al dolore è all'origine della parola blues e dei canti del popolo afroamericano sfruttato) in cui è immersa la canoa rappresentata nell’opera, che riflette sul pavimento uno schema di un'antica nave adibita al trasporto di schiavi, si stagliano verso il cielo le braccia degli avi. La coerenza nel discorso politico e sociale della Saar non conosce limiti, e come sempre sfugge del tutto al ricorso allo stereotipo nel raccontare la storia degli afroamericani.
George Segal – American, 1924-2000. Templon (Paris)
Le sculture di George Segal danno quasi l’impressione paradossale di essere dei tableaeu vivant pur essendone di fatto l’opposto, pietrificando senza pietà le figure umane rappresentate. Probabilmente è il ricorso alla rappresentazione di environment, quasi fossero dei diorami, associata al fatto che si tratta di calchi al vero di persone realizzate tramite la tecnica delle bende ingessate, a rendere questo effetto. Scultura pop situazionale che rende eterni gli istanti quotidiani come in una moderna, metafisica Pompei in cui al dolore dell’ultimo istante di vita si sostituisce il malessere del perpetuo quotidiano, fatto di un infinito momento di solitudine e straniamento.
L’opera qui presente, che raffigura semplicemente una donna distesa nel suo letto all’alba, con tutta la fragilità che la tecnica usata dell’artista rende alla scultura (del tutto opposta alla solida plasticità delle sculture classiche), rappresenta la quintessenza della routine. Passiamo un terzo della nostra vita a non viverla, distesi nel letto, comunque e sempre soli, anche quando accanto a noi ci dovesse essere qualcuno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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