Evviva la ricchezza, la felicità e gli anni Ottanta

"L'estate infinita" racconta l'epoca finita in cui gli italiani potevano costruirsi un futuro libero e intraprendente

Evviva la ricchezza, la felicità  e gli anni Ottanta

Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperistiche lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità? Dove, un altro capace di scrivere l'elogio incondizionato degli anni Ottanta, di esprimere «la fortuna immensa d'avere vent'anni nel 1982, nell'Italia migliore di sempre»? (Altro che anni di plastica, anni di consumismo, craxismo e Drive In: «L'Italia migliore di sempre»). E dove lo si trova un altro autore capace di mettere in esergo non filosofi macerati o poeti sofferenti bensì un prosaico documento Istat? Lo vogliamo leggere insieme quel documento prosaico però anche, col senno di poi, struggente? «Dopo il miracolo dei primi anni Sessanta il quadro dell'economia si mantiene espansivo: fra il 1970 e il 1979 il PIL cresce intorno al 40%. Nel decennio che segue la crescita rallenta ma sfiora comunque il 25%».

L'estate infinita (Bompiani, pagg. 453, euro 19) è un magnifico romanzo vitalista ambientato nella Toscana in crescita impetuosa e in particolare a Forte dei Marmi, località mai esplicitamente citata ma riconoscibilissima nella «cittadina di mare che sta accucciata sotto la catena montuosa più piccola del mondo». È un tormentone, quello delle Apuane «catena montuosa più piccola del mondo», uno dei trucchi per dar ritmo alla narrazione, un battito che non rallenta mai nonostante la foliazione espansiva come l'economia dell'epoca (453 pagine, accidenti). Altro trucco è la suddivisione in svelti capitoletti. Trucco ulteriore è l'uso dei toscanismi, non troppi per non farne un libro dialettale ma nemmeno troppo pochi per non farne un libro scondito.

Nesi mi ricorda Scott Fitzgerald, con qualche inevitabile differenza: 1) l'americano non usava espressioni come «a cinci ritto» o «finire al povero»; 2) Gatsby è un perdigiorno mentre Ivo Barrocciai (protagonista già di un altro romanzo nesiano, L'età dell'oro ) è uno stakanovista; 3) non siamo nell'età del jazz ma in quella di Gloria Gaynor (grande il capitolo dedicato al suo concerto alla Capannina). Mi ricorda anche Romolo Bugaro, anche lui dalla parte dell'impresa, che però racconta i costruttori contemporanei e quindi stroncati dalla crisi, non gli industriali tessili esaltati dal boom. Non mi ricorda affatto Fabio Genovesi che al pari di Nesi ambienta i suoi libri in Versilia, tuttavia scegliendo come protagonisti dei malati e dei precari. L'ennesimo decrescista, capace di intitolare un libro Morte dei Marmi (Laterza) e pertanto meritevole di tre anni di confino a Marina di Lesina, così vede la differenza e smette di lamentarsi del grasso che cola.

Invece sprizzano salute da tutti i pori i personaggi del Nesi, giocano a tennis quasi da campioni (era il tempo dei circoli del tennis), trombano instancabili le ganze (era il tempo delle amanti e delle vanterie erotiche con gli amici), si tuffano nella piscina olimpica costruita sul tetto della fabbrica come schiaffo alla miseria e pernacchia ai funzionari comunali, bevono Dom Perignon (era il tempo del Dom Perignon) e dopo aver dormito poche ore salgono sul Concorde (era il tempo del Concorde) e in un battibaleno arrivano a New York per vendere i loro bellissimi tessuti e tornare a casa con tanti ordini che consentiranno nuove assunzioni e nuovi acquisti di telai e di Ferrari: «Andava tutto bene, così bene che meglio non c'era verso. E sarebbe andato tutto bene anche il mese prossimo, e l'anno prossimo, e l'anno dopo ancora. Sempre. C'era un futuro che non finiva mai».

Il futuro era, come l'estate del titolo, infinito per tutti, non solo per i Barrocciai, per i padroni delle grandi fabbriche. Chiunque poteva aprire una ditta, bastavano coraggio e voglia di lavorare: al resto ci pensavano le banche, che facilmente elargivano, e i clienti, che continuamente spuntavano. Un personaggio minore, salito dall'Irpinia per fare l'imbianchino e divenuto capocantiere, una sera torna a casa e davanti alla moglie esterrefatta getta sul letto matrimoniale comprato a rate una montagna di soldi: «Banconote di tutti i tagli: cinquemila, diecimila, cinquantamila, e anche qualcuno di quei grandi fogli da centomila che aveva visto solo al cinema». È la fine della povertà, la possibilità di comprare una macchina, di cambiare divano e frigorifero, di dare un alloggio dignitoso ai vecchi genitori, di far salire i fratelli rimasti disoccupati al paesello. Pasquale non è mai stato così felice in vita sua e scappa fuori casa per piangere senza farsi vedere.

È venuto da piangere anche a me, a pagina 147. Non mi vergogno di dire che mi è venuto da piangere altre volte, leggendo questo romanzo popolato di industriali romantici e imbianchini sognatori.

Pensando a loro e pensando agli italiani di quell'epoca non lontanissima ma talmente prodigiosa da risultare ormai inconcepibile: «Quando mai era successo prima, in Italia, che si potesse sprezzare il destino e decidere di tirarsi fuori dalla miseria con il proprio lavoro, liberamente, senza dover chiedere permessi o favori a nessuno? Non è un miracolo, la libertà?». E pensando agli italiani di oggi, a noi che quella libertà abbiamo perso.

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