Gesù non si vergogna di essere pop(olare) E così vince la sfida

Lo scrittore sceglie il linguaggio della televisione e del cinema. Rischioso. Ma riesce a farci sentire vivo, qui e ora, il Nazareno

Gesù non si vergogna di essere pop(olare) E così vince la sfida

Vita di Gesù di Ernest Rénan. Storia di Cristo di Giovanni Papini. Vita di Gesù Cristo di Giuseppe Ricciotti. Gesù di Nazareth (e poi Infanzia di Gesù) di Joseph Ratzinger. Senza dimenticare il Gesù di Zeffirelli e The Passion of Christ di Mel Gibson. O quell'immenso capolavoro che è Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. O il dimenticato Processo a Gesù di Diego Fabbri.

Sono i primi titoli, quelli a me familiari, di una sterminata produzione letteraria, teatrale e cinematografica, senza dimenticare la fiction tv, anche ai suoi livelli infimi, perché Gesù nacque in una stalla, ossia nell'infimo, perciò non può temere il trash. È un argomento alto, insomma, ma anche basso, allo stesso modo in cui la parola «essere» comprende l'Essere Supremo e i rifiuti sul retro di un ristorante cinese.

L'uscita del romanzo Gesù di Davide Rondoni (Piemme, pagg. 350, euro 17,50) ci pone innanzitutto davanti a una domanda semplicissima: perché, nel corso della storia della nostra civiltà, in alcuni momenti cruciali, la cultura ha sentito il bisogno di interrogarsi sulla figura di Gesù Cristo?

Esistono ragioni spirituali, naturalmente. Un'anima pia può cimentarsi nell'impresa al puro scopo di conoscere meglio l'oggetto del proprio amore, ed è indubbio che la scrittura, pur essendo luogo prediletto dalle insidie del diavolo, è al tempo stesso una forma privilegiata di conoscenza.

Esistono ragioni politiche. Nessuna riflessione sui grandi temi della giustizia e del potere può, nella nostra civiltà, prescindere da quanto accadde in quella terribile seduta del sinedrio e nel processo che vide il Nazareno condannato a morte, e condannato - si badi bene - con un processo regolarissimo. Non è un dettaglio: al di là delle intenzioni malevole dei suoi accusatori, Gesù fu condannato secondo la Legge.

Ma, al di là di tutto questo, la ragione più profonda sta nella risposta che Damien Hirst, l'artista-divo, diede a un giornalista che gli aveva chiesto perché l'arte contemporanea se la prendesse così accanitamente con i simboli cristiani. Hirst rispose pressappoco così: perché quelli sono i soli simboli di cui disponiamo.

Anche nel 2013, pur se non lo sappiamo, o non ci pensiamo, tuttavia è certo che per un uomo occidentale è su quell'evento, e solo su quello, che si gioca la grande decisione. La presa di posizione su Cristo è quella che decide la nostra fisionomia nel mondo. Chi altri potrebbe essere? Carlo Marx? Che Guevara? John Lennon?

Non è questa la sede dell'indagine, ma non è indegno di interesse nemmeno il fatto che alcuni autori optino per Gesù (come Rénan, Zeffirelli, Rondoni), altri per Cristo (Papini, Gibson), altri per Gesù di Nazareth o Nazareno (Ratzinger, Bulgakov, Jannacci), altri ancora optino per un più equanime Gesù Cristo (Ricciotti). Tutte queste scelte sono indice di qualcosa di preciso.

Il romanzo di Rondoni si inserisce, dunque, in una trama storica di importanza fondamentale. Esiste, naturalmente, tutta una grande letteratura che ha preso posizione con energia su Cristo senza ripercorrerne la biografia (Manzoni) o ripercorrendola ma solo come commento al testo evangelico (Agostino). Dico, è chiaro, solo alcuni delle centinaia di nomi che si potrebbero fare sull'argomento.

Bisogna, per giudicare il Gesù di Rondoni nel modo giusto, ricordare che Rondoni è uno dei più importanti poeti italiani, e che per parlare di Gesù - ossia per giocarsi tutta la reputazione - ha scelto un genere letterario come il romanzo, che lui frequenta meno. Ha scelto di giocare la sua partita in una situazione di debolezza, e per fare questo era necessario avere le idee molto, molto chiare.

Io non scriverò mai un romanzo su Gesù. E, se lo scrivessi, sarebbe completamente diverso da quello di Rondoni. Ma forse proprio per questo non lo scrivo: perché per scrivere oggi un libro come questo occorre, molto probabilmente, assumere la posizione che ha assunto Rondoni.

Il Gesù di Rondoni rifiuta, fin dalle prime righe, la letteratura «alta» (di cui, pure, l'autore è capace). Nel suo testo sono presenti, oltre a una buona documentazione storica, gli echi delle tante letture importanti sostenute, da quelle dichiarate all'inizio del volume a quelle che non ha senso dichiarare, come le tante immagini o figure di stile che rinviano a Ungaretti piuttosto che a Péguy e ad altri.

Ma il modello letterario è volutamente «basso». Rondoni non si cala nei personaggi, non si immedesima nel tempo storico, non compie cioè le classiche azioni di un romanziere, ma decide di sfidare il linguaggio delle immagini, dai kolossal alle telenovelas. Rondoni - che conosce bene i meccanismi seduttivi della tv e gli equivoci in cui incorrono tutti coloro che pensano di poterli ignorare - ha capito che per parlare di Cristo è necessario sfidare l'enterteinment, e lo fa realizzando una sceneggiatura intelligente, puntuale e, udite udite, popolare.

Lo scrittore avrebbe potuto scrivere un poema, o una pièce di teatro: due linguaggi che conosce bene. Invece ha scelto di giocare in trasferta pur di giocare d'anticipo.

Cristo è troppo concreto, troppo vivo, il suo schianto è qui, presente, ora.

Se vogliamo dire che Cristo è l'evento fondamentale della storia, per ciascun uomo, non bastano le indagini sul potere, il fervore religioso e nemmeno la «buona letteratura».

Non so se Rondoni vincerà o meno la sua scommessa. Certo, è in ogni caso una grande scommessa.

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