Gheddafi, il vero volto dell'uomo che volle farsi rivoluzionario

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di "Gheddafi. Ascesa e caduta del ra'is libico" (Historica edizioni)

Gheddafi, il vero volto dell'uomo che volle farsi rivoluzionario

Muhammar Gheddafi nacque di umili origini e volle farsi rivoluzionario, nel tempo divenne un longevo tiranno. Fu forse il più enigmatico, affascinante e scellerato leader del mondo arabo: temerario, mutevole, debole nello spirito ma risoluto nel carattere, buon tattico ma mediocre stratega, visse del suo mistero e delle sue contraddizioni.

Tribuno del nazionalismo arabo, socialista rivoluzionario dalle attitudini conservatrici, predicò la liberazione delle donne nella società musulmana ma fece uso degenerato del sesso come arma di ricatto e potere; tiranno che aspirava alla libertà, ascetico beduino del deserto, in quarantadue anni di potere accumulò immense fortune; fu un sognatore capace del più algido realismo in nome dello spirito di sopravvivenza; devoto a Dio ma divorato dalla paura della morte, ebbe in orrore la pena capitale ma la dispensò con prodigalità. Capace di umorismo ma indifferente alle crudeltà; alle virtù dell’uomo saggio preferì la ricerca del prestigio; timido alla patologica ricerca di attenzione, le sue illusioni cedettero presto il passo alla smodata smania di farsi padrone che ne illanguidì l’animo e il corpo, mentre l’avidità ne annientò la lealtà, l’onestà, ogni virtù: al posto dei parchi consumi presero sopravvento la superbia, la crudeltà, il mercimonio.

Sayf al-Islam, secondogenito e presunto erede del Colonnello, ammise di non sapere chi fosse suo padre. “È un uomo diverso ogni giorno”. Buona parte di ciò che sappiamo di Muhammar Gheddafi proviene da interviste con la sua famiglia, i suoi amici, alti ufficiali del regime e da scarni ricordi autobiografici come quelli contenuti nella raccolta di novelle Escapade d’enfer et autre nouvelles o in Khissat al-Thawra (Racconti della Rivoluzione). Possediamo poche altre fonti, la maggior parte delle quali risultato di propaganda e disinformazione o agiografia e mitologizzazione. Negli anni in cui fu al potere molti tentarono di scrivere un ritratto psicologico del Colonnello e durante l’amministrazione Reagan (1981-1989) Gheddafi divenne argomento di quotidiano dibattito a scapito di più importanti dossier come la crisi iraniana o i rapporti bilaterali con l’Unione Sovietica.

Gli analisti produssero centinaia di pagine sulle politiche ed il comportamento di Gheddafi, contribuendo ad amplificare la paranoia e il mito in cui si avvolgeva il personaggio. “Tossicodipendente, logorato dal potere, (sebbene) non psicotico […] (Gheddafi) soffre di un grave disturbo della personalità: il disordine da personalità borderline”. Sono solo alcuni dei giudizi espressi da funzionari del governo americano. Alcune delle persone più intime del Colonnello, tra cui membri del Comando Rivoluzionario (CCR), contribuirono ad alimentare le voci sulla inferma mente del Leader. Ibrahim Fagih è ancora convinto che patologie cliniche possano spiegare molte sue azioni apparentemente incomprensibili. Egli insiste nell’affermare che il Colonnello fosse un sociopatico, un soggetto a cui difettano empatia ed emozioni, incapace di provare rimorso e di anticipare le conseguenze delle sue azioni, una maschera vuota che guarda alle persone esclusivamente come ad un mezzo per un fine per la propria soddisfazione.

Mescolata ad un profondo senso di impunità, la sua sociopatia sarebbe stata poi accompagnata dalla paura della morte, dal momento che “tutto era visto attraverso il prisma della paranoia”. Altri, come White, ex vicedirettore del Bureau of Intelligence and Research (INR) del Dipartimento di Stato, lo descrissero come un maniaco-depressivo prigioniero del suo stesso narcisismo e feticismo, un rivoluzionario che agì come un adolescente, senza ponderare le conseguenze e la distanza che esiste tra idee, fantasie e realtà. Franco Frattini, che durante il suo mandato come ministro degli Affari
Esteri ebbe modo di incontrare più volte il Colonnello, lo ricorda dotato “di una mente raffinata e sinuosa. Elusivo […] sempre alla ricerca di un modo per entrare a far parte della grande storia”. Per l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Trupiano, a lungo plenipotenziario a Tripoli, Gheddafi era un leader “dotato di un fascino perverso”. Secondo Ethan Chorin, tra i primi diplomatici americani a tornare a Tripoli dopo la fine dell’embargo, non fu nient’altro che un uomo infelice impegnato in un estenuante esercizio di sopravvivenza prima di una fine inevitabile.

Tutti questi ritratti, questi volti del Colonnello, sono veritieri e falsi allo stesso modo. Ognuno di essi coglie senza dubbio alcuni aspetti di una superficie di paradossi dietro cui si nascose un libertario del deserto. Gheddafi prese il potere nel 1969, appena un anno dopo il maggio francese e le proteste studentesche a Berkeley, aveva ventisette anni, era un sognatore la cui ostinata natura lo spinse a farsi carico delle ingiustizie del mondo fino alle estreme conseguenze: la causa palestinese divenne la sua causa, così come quella dell’Africa postcoloniale, dell’Irlanda del Nord, dei movimenti di liberazione caraibici e latino-americani, perfino dell’Armata Rossa Giapponese. Il senso di predestinazione (baraka) nutrì le sue
ossessioni e nei primi dieci anni di potere Muhammar Gheddafi ricordò una apologetica immagine di Lucio Sergio Catilina. Proprio come Catilina avrebbe infatti potuto dire: “Mi sono fatto carico, com’è mio costume, della causa generale dei disgraziati”.

Studiare la caduta del colonnello significa domandarsi perché, tra la libertà e la tirannide, gli uomini scelgano inevitabilmente la seconda nella convinzione di poter avere la prima. Perché si giunga al potere in nome della prima ma si finisca per permanervi solo grazie alla seconda.

Gheddafi - Ascesa e caduta del ra'is libico

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