Giampaolo Pansa, il maestro sempre contromano rifiutava le lenti dell'ideologia

Non è mai stato un giornalista neutrale e non si è lasciato sottomettere all'etichetta. Portava il lettore nel suo sguardo

Giampaolo Pansa, il maestro sempre contromano rifiutava le lenti dell'ideologia

Se ne è andato via in una notte di metà gennaio, scartando di lato, come al solito senza avvertire nessuno, lasciando la vita perché ormai si era stancato di raccontare storie contromano. Forse perché in questo tempo stanco e vuoto non ne trovava più.

Giampaolo Pansa è morto e non bastano poche righe buttate giù in fretta per raccontarlo. Quello che pensi è che piano piano, uno alla volta, vanno via i giornalisti della stagione d'oro, quelli che hai letto da bambino, quelli per cui bene o male hai pensato di fare questo mestiere. Non c'è nessun mistero. È l'età eppure alla fine finisci per sentirti un po' orfano dei tuoi santi.

Pansa non è mai stato un giornalista neutrale. Scriveva quello che vedeva, sentiva, dal suo punto di vista, senza però mai sottomettersi al gioco delle etichette e rifiutando di indossare gli occhiali comodi dell'ideologia. Questo non significa che non aveva idee, pensieri e una visione del mondo, ma aveva abbastanza coraggio, carattere, per metterla al confronto con i fatti e non prendersi in giro. Il patto con un lettore era un altro: ti porto dentro il mio sguardo, non bluffo, tu cerca di fidarti di me. Ha scritto dove si sentiva libero, quando si sentiva in gabbia apriva la porta e se ne andava. «Credo di essere il cronista che ha lavorato per più giornali: ma sono ancora qui, a rompere le scatole».

Ha cominciato a 26 anni a La Stampa, un quotidiano che per chi è nato a Casale Monferrato, il primo ottobre del 1935, in provincia di Alessandria, è un punto di arrivo. Per lui, che amava la sua provincia fino alle viscere, è stato il punto di partenza. E da lì il lungo cammino: il Corriere della Sera, il Messaggero, Epoca, Repubblica, l'Espresso. Poi la svolta, per raccontare le ragioni dei vinti. Il passaggio al Riformista e poi Libero e la Verità. L'ultimo approdo è il ritorno al Corsera.

Non sono le testate che però fanno la sua storia. È la capacità di essere dove c'è bisogno di raccontare. Pansa è il racconto del Vajont, è a Piazza Fontana, è l'inchiesta che svela lo scandalo Lockheed. È la famosa intervista a Enrico Berlinguer, quando il segretario del Pci racconta di sentirsi molto più a sicuro sotto l'ombrello della Nato. È lo strappo con Mosca e l'idea dell'eurocomunismo. Pansa è il racconto dei protagonisti della politica che prendono vita come nelle favole di Esopo. È il suo famoso Bestiario. È la capacità di vedere nei leader di questo o quel partito, di uomini di governo o d'affari, la loro radici, il loro istinto, animale.

La testardaggine di Pansa si rivela in tutta la sua potenza nel 2003 con un saggio che non gli verrà mai perdonato dai suoi vecchi amici: Il sangue dei vinti. Quale è la sua bestemmia? Raccontare quello che molti accademici non hanno avuto la coscienza di fare. Dire che alla fine della guerra anche i rossi hanno ammazzato i neri. Sono i giorni della giustizia sommaria e della vendetta. Sono le morti di chi andrebbe dimenticato, morti fasciste, morti senza pietas. «Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli».

Pansa non è mai stato fascista. Non ha scavato nella storia dimenticata per rivendicare qualcosa. È stata la curiosità a portarlo su quelle strade, su quei delitti, nei sentieri di quelle croci. Non gli è mai stato perdonato. Perché un giornalista di sinistra va a scartabellare nella storia dei fasci? Perché tradisce i suoi amici, i suoi compagni di cordata, i suoi lettori? Pansa ha sempre detto che non ha mai tradito nessuno, ma soprattutto non voleva tradire se stesso. Non ha mai amato le carte false. «Carte false. Fare carte false. Spacciare carte false. Sempre di più, il giornalismo italiano mi appare così: un mestiere che non può, o non vuole, distinguere il falso dal vero, un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso».

Nella sua storia c'è una morte arrivata troppo presto. No, non la sua, con quella ormai stava facendo i conti.

La morte che non voleva vivere è quella di suo figlio Alessandro. È morto a 55 anni, l'undici novembre del 2017. Nessun padre vuole assistere alla morte del figlio. «Come avrei potuto proteggerti figlio?». Non poteva. Ora, in qualche posto nello spaziotempo, forse può riabbracciarlo.

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