Il giorno in cui mi portarono via la donna più bella del mondo

Il racconto di un amore - solamente sfiorato - in una spiaggia francese

Il giorno in cui mi portarono via la donna più bella del mondo

C'era una vecchia canzone, che a cantarla non sarei bravo, dedicata a una giovane donna così raffinata e stramba, che trascorreva l'estate in quella Costa Azzurra dove sono cresciuto da bambino, e poi mi sono fatto uomo da ragazzo. La cantava un inglese dai baffi lunghi e i capelli gonfi che è stato famoso per un po', quando io non ero ancora nato. E ancora tanto dovevo aspettare per farlo. Lei, a dar retta a lui, sapeva ballare come Zizi Jeanmaire, e parlava come la Dietrich. Vestiva solo da Balmain, era amica intima dell'Aga Khan e tanto vicina a Picasso da potergli rubare un quadro e tenerselo alla faccia sua. Era bella - si capisce. E lui doveva averla conosciuta da bambina, tanto da curarsi dei suoi pensieri. S'intitolava "Where do you go to my lovely"...poi proseguiva domandandosi disperatamente: "When you're alone in your bed?"...e per me è sempre stata un esempio del tipo di donna da cercare. Parigina, spensierata, affabile e dotata di un certo sense of humor. Capace di riconoscere un buon brandy quanto un cavallo da corsa sul quale dover scommettere senza indugio. Laureata alla Sorbona. Che forse è un luogo tanto blasonato da portare per fino a quello: saper scommettere sul cavallo giusto - si parli davvero di un puro sangue o di un uomo da sposare.

Quando Peter Sarstedt cantava a questa donna, era il 1969. Mia madre era appena nata. E io avrei sognato d'essere un Gigi Rizzi almeno mezzo secolo più tardi. Tuttavia come l'ascoltai la prima volta, per caso, mentre girava un vecchio disco impolverato in una casa che si tuffava su quello stesso mare, non mi sembrava che tanto tempo separasse me e il vecchio Pete. E quando vidi una tipa che sulla spiaggia di Pampelonne sfilava tra gli occhi di milioni di uomini assorti, giuro l'avrei chiamato per telefono - per dirgli "Pete l'ho trovata. È qui". Teneva i capelli con una fascia come la Bardot. Portava uno di quei costumi interi, che hanno l'incosciente decenza di permettere a noi uomini di fantasticare ancora un poco su cosa può svelarci un corpo nudo e perfetto, e aveva degli occhiali da sole che non potevano non esser saltati fuori da un cassetto dimenticato. Di quelli che devi forzare un po' per aprirli. A tentoni. Piano Piano. Con la giusta dose di forza. Finché non arrivano al punto in cui puoi finalmente affondare le mani per scoprire quali segreti custodiscono.

Brigitte Bardot in spiaggia

Io me ne stavo lì, appollaiato come un airone un po' curvo sulla mia sedia da regista, e da dietro le lenti scure dei miei occhiali da sole trovati in un cassetto simile, mi godevo lo spettacolo insieme a uno stormo di uccelli che pareva esser migrato di colpo per ammirare il prodigio della bellezza che quel giorno, aveva proprio deciso di manifestarsi sulla lingua di sabbia grossa e chiara che divide Cap Du Pinet da Cap Camarat. Mentre infilava un piede dopo l'altro in quella sabbia deliziosa, tutti intorno assumevano l'espressione temeraria di volontari coraggiosi pronti a farsi calpestare come fossero polvere. Tutti uguali. Al bando araldi e patria di provenienza. Fossero discesi da un panfilo o di passaggio per vendere quelle deliziose brioche au chocolat di cui andavo ghiotto. E che ero sempre pronto a placcare al loro passaggio. Ogni volta che vedevo il garzone. Ogni volta che per un motivo o per un altro, avevo saltato la colazione.

Che devo dirti Pete, a vederla sfilare su quella spiaggia sembrava proprio lei. Lei spiccicata. Qualcosa lo avevo aggiunto io con la mia immaginazione. S'intende. I lineamenti dolci, il naso all'insù come si addice a una francese, le lentiggini lievi, i seni piccoli e delicati, il mento cesellato come quello di una polena fatta ad arte. Slanciata come un felino. Asciutta come una ballerina del Bolshoi. Mi avessero svelato in quel breve tragitto tra l'acqua fresca e il suo telo a righe che l'avvolgeva nel mare dell'invidia delle altre, che fosse stata la morte in persona, sarei corso a baciarla sulle labbra con tutte le conseguenze del caso. Parola mia. Eppure non lo era. Non poteva esserlo. Né la mia, né la tua. Né la Morte. Perché era in compagnia di un vecchio ricco, forse un greco da come blaterava ai camerieri. Con le dita grassocce e abiti setosi. Al suo polso pesava un marchingegno per tenere il tempo che brillava d'oro rosa a ventiquattro carati. Lo zaffiro che lo chiudeva per affacciarcisi dentro, era tanto vasto da potercisi specchiare fino alle scarpe per vedere se era giusto l'orlo dei pantaloni. E lui, con quella cicatrice su una tempia, sembrava perfetto per un ruolo da cattivo in una pellicola di James Bond. Non le porse nemmeno l'asciugamano il cialtrone. Non la degnò nemmeno di uno sguardo, a quella divinità di marmo. Doveva averla guardata così tante volte, attraverso i veli e senza, che le era andata a noia. Che la sera, prima di tornare con una lancia veloce nella sua pacchiana nave da guerra posata all'ancora nel golfo, ne cercava sempre una nuova per farle fare coppia nel letto con lui. Quel panzone vizioso. Avvolta nell'asciugamano e nelle gocce salate che baciavano e correvano sulla sua pelle liscia, era ancora più bella. E sorrideva per qualcosa. Da sola. Non saprei dire. Forse era felice di quella nuotata. Lui comunque la stava già ignorando. Era tornato spettatore interessato del suo telefono cellulare. Scrollava intensamente.

Edwige Fenech

Te l'ho voluta cantare così Pete. Tanto per passare il tempo. Ammazzarlo. Tanto per tentare di esserti amico. Tanto per ricordarti, che sono sempre i soldi a conquistare quel genere di donne.

Mai le canzoni. Io tuttavia mi sono voltato di gran carriera e mi sono acceso una sigaretta in maniera appassionata. Come faceva Serge Gainsbourg. Perché lei si era accorta che la guardavo, e ti dirò.. alla fine non si sa mai.

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