Entrambi disumanizzanti, il lager nazista e il gulag sovietico differivano su di un aspetto. È noto che finivano nei campi di concentramento o di sterminio nazisti precise categorie di persone: ebrei, omossessuali, nomadi, nemici politici. Meno lucidità e più follia, invece, nei campi dei bolscevichi: poteva finirci chiunque, compresi gli stessi aguzzini del giorno prima, gli alti esponenti del partito. Bastava poco, una delazione, un dubbio «controrivoluzionario» espresso in una lettera o in una conversazione da bar, una «purga». In Unione sovietica veramente la rivoluzione mangiava i suoi figli.
Se le condizioni nei campi sovietici erano tragiche e disumane per i prigionieri, non erano molto migliori per gli stessi carcerieri. Lo scopriamo leggendo il Diario di un guardiano del Gulag (Bruno Mondadori, pagg. 234, euro 18; con un saggio di Marcello Flores, postfazione di Irina Scerbakova) ovvero di un certo Ivan Cistjakov, uomo che il destino ha voluto testimone di quella tragedia collettiva novecentesca. Il diario - un documento storico di rilevanza eccezionale - è oggi custodito in una cassaforte del Centro Memorial per i diritti umani di Mosca ed è prezioso perché non esistono altre memorie di chi stava dall'altra parte del filo spinato. Era infatti pericolosissimo tenere diari o accennare nelle lettere alle condizioni di vita nei campo di lavoro. Perquisizioni e sequestri erano all'ordine del giorno, bastava poco per passare da guardia a internato, a schiavo. Di Cistjakov si sa poco, quello che suggerisce lui stesso nella sua testimonianza: poco più che trentenne, moscovita, appassionato di sport e di pittura, non proletario di origine, probabilmente reduce della guerra civile degli anni Venti e poi espulso per motivi ignoti dal Partito comunista. Finì, nel 1934, al comando di un'unità della guardia armata in un lager di lavoro correzionale dove era compito dei detenuti costruire un tratto della ferrovia Bajkal-Amur in Siberia. È qui, nei due anni passati al Gulag come comandante di un plotone di sorveglianza, che Ivan Cistjakov tiene un diario che, scampato alla distruzione e pubblicato oggi per la prima volta, è un documento storico di eccezionale rilevanza, anche perché unico nel proporre un punto di vista diverso - tra una certa empatia con le miserie dei prigionieri, l'irritazione per gli ordini insensati, momenti di collera, tristezza e vergogna - da quello delle vittime.
Siamo dunque negli anni in cui Stalin dichiarava, in un famoso discorso, che «la vita è diventata migliore, compagni, la vita è diventata più gioiosa!». Non però per Cistjakov, per i suoi colleghi e per i detenuti che dovevano sorvegliare. Le condizioni climatiche erano durissime, il termometro toccava i meno 50 gradi a gennaio, e tutti, guardie e schiavi erano costretti a lavorare fino a diciotto ore al giorno e spostarsi a piedi per distanze di trenta o quaranta chilometri. Scarseggiavano i beni primari: la legna per scaldarsi, il cibo, il vestiario. La disorganizzazione e il sistema insensato, assurdo, rendevano comune la vita quotidiana dei prigionieri e dei sorveglianti.
Cistjakov - un tipico rappresentante della «zona grigia» - non era un bolscevico entusiasta ma nemmeno un anticomunista convinto, si considerava un leale cittadino sovietico ma rimase disgustato dal caos che lo circondava.
Forse proprio a causa del suo diario finito nelle mani sbagliate.
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