L'angoscia di Mario Sironi, maestro della pittura del Novecento, è nota quanto la sua opera. Detta a Sironi quel rovello estetico che lo rende partecipe delle ricerche pittoriche contemporanee, di cui declina le istanze secondo il suo personalissimo tormento. Che quell'angoscia fosse inconciliabile con la propaganda fascista è verosimile, chi soffre non ha niente da celebrare, ma è un tentativo - lo ritroviamo sfogliando il catalogo della retrospettiva al Complesso del Vittoriano di Roma Mario Sironi 1885-1961 (fino all'8 febbraio) - che non risolve l'adesione di un tale pittore al fascismo, per chi ancora la patisca. La critica d'arte del dopoguerra (e oltre) ha relegato Sironi in un limbo, ma riconoscere un talento non è questione di epoche. Quando Picasso presenta Guernica , il grido più forte dell'arte moderna contro ogni regime, all'Esposizione Internazionale di Parigi del 1937 c'è anche L'Italia corporativa , mosaico monumentale di committenza fascista di Sironi (in mostra un cartone preparatorio). Di lui Picasso dirà: «Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto».
Elena Pontiggia, curatrice qui in collaborazione con l'Archivio Sironi (in mostra anche una selezione di corrispondenza con protagonisti della cultura del Novecento, bozzetti della intensa attività di illustratore e un focus su vent'anni di pubblicità per la Fiat) mette in scena il racconto di una ricerca pittorica che parte dagli inediti simbolisti dell'adolescenza per arrivare a opere antecedenti mesi o giorni la scomparsa di Sironi. Passando dall'approccio divisionista, poi liquidato come «il raggelante sforzo» ( La madre che cuce ), al futurismo di cui Sironi «pittore-architetto» che guarda al costruttivismo russo, solidifica i volumi (il collage Arlecchino ), allo choc visivo dell'incontro con la metafisica, che in Sironi diventa manichini di solitudine e dolore ( La lampada , L'eclisse ). Un percorso cronologico di 90 opere, con quei Paesaggi urbani , dalla Milano degli anni '20, che fanno sempre lo stesso effetto potente di modernità. Ma soprattutto è una solitudine che non si arrende («la mia dura e squallida tristezza non mi rassegna all'inerzia») a conquistare lo spazio della tela con la sintesi estrema della forma. Una disperazione che accetta una sfida: un autoritratto. E un tema che ritorna vent'anni dopo, con il colore che invade e sfalda la linea di case, finestre, tram: Milano, ma Sironi ha anticipato anche periferie della letteratura, quelle romane di Pasolini.
La pittura murale poi è il sogno che si realizza -in mostra i cartoni preparatori delle opere- di un'arte rivoluzionaria, dedicata al popolo, per muri e piazze dove apprendere gli ideali di patria, lavoro, famiglia, il ruolo cruciale di cultura e giustizia. Sironi è «un bolscevico» (Arturo Martini) che vorrebbe ripudiare per sempre il quadro borghese. Non lo tradisce l'ideale, ma l'uomo. Che allora non può più essere eroico, monumentale, fiero. Sironi lo riduce a minutaglia che ruota intorno al suo feretro ( Il mio funeral e, 1960) o cerca scampo inutilmente nei cunicoli di rocce in combustione ( Apocalisse del '61, Sironi muore ad agosto).
Un talento vero ti si impone tuo malgrado.
Gianni Rodari è un partigiano quando si imbatte col suo drappello in Sironi il 25 aprile. L'epilogo può essere uno solo, fucilazione. Ma Rodari, futuro scrittore di fiabe, sa inventare un lieto fine: firma a Sironi un lasciapassare, gli salva la vita. Per lui «non c'è pittore che valga i suoi quadri».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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