Modernizzare l'opera? Il rischio è quello di dimenticare la musica

Da "Rigoletto" a "Gianni Schicci" i registi provano soluzioni nuove. Ma ci sono rischi.

Modernizzare l'opera? Il rischio è quello di dimenticare la musica

Com'è l'opera ai tempi del Covid? Il coronavirus ha accelerato un processo in atto, quello delle regie dirompenti. I registi Damiano Michieletto, a Roma con Rigoletto e Valentina Carrasco, a Viareggio con Gianni Schicchi, hanno firmato i primi melodrammi tornati sulle scene dopo lo stop da pandemia.
La Carrasco chiama in campo la contemporaneità, proprio quella che - per la verità - vorremmo fuggire, per cui scatta un bacio e interviene la protezione civile, gli artisti indossano guanti e mascherine, il palco è ossessivamente igienizzato, e archiviata la plastic tax, ecco plastica ovunque. Al Circo Massimo di Roma è appena andato in scena un Rigoletto noir, racconto di un mondo criminale anni Ottanta. «Rigoletto è di Giuseppe Verdi, quindi di Francesco Maria Piave. Poi arriva questo regista che dicono essere un genio e mette in scena una banda, vedi figure che ricordano Bobby Solo e Little Tony. Non si capisce come scatta la vendetta. Il Quartetto, una delle pagine più belle del melodramma, finisce in un camper. Sono letture che già in partenza respingono il pubblico dei vecchi. Forse si pensa che in compenso si attireranno i più giovani? Non mi sembra una buona strategia. I grandi registi, penso a Zeffirelli e Strehler, erano rispettosi della musica: il punto di partenza» è l'osservazione di Fedele Confalonieri che alla musica ha riservato passioni e studi culminati in un diploma di pianoforte.
La cantante Katia Ricciarelli, sollecitata sul tema delle regie, è chiara: «L'opera ha un linguaggio che risale a centinaia di anni fa. Ci sono parole cadute in disuso. Può essere che il libretto chieda all'artista di tenere una spada in mano dall'inizio alla fine, la cosa fa ridere? Pazienza, se ami il melodramma, devi amarlo per quello che è. Bisogna andare al passo coi tempi, non c'è dubbio. Ma questo non vuol dire stravolgere tutto, faremmo altrimenti male al melodramma. Vanno eliminati fronzoli, parrucconi, le corna e la coda di Mefistolfole per dire. lo spettacolo va consegnato snello e pulito. Ma su tutto vige il buon gusto e il Bello. Ciò che più conta è la musica, le voci, la bravura dei cantanti-attori. Solo così possiamo sperare di portare i giovani a teatro. Siamo in un periodo difficilissimo. Penso sarebbe ragionevole procedere a piccoli passi. E poi, siamo onesti: in momenti così difficili abbiamo bisogno di andare a teatro per sognare e trovare un po' di magia».
Il regista milanese Filippo Crivelli ironizza sullo strapotere della regia. E nel commentare il Rigoletto romano dice, la locandina dovrebbe indicare - Rigoletto del regista Michieletto con inserti musicali di Giuseppe Verdi -. No, non è una regia moderna: semplicemente non c'è regia. Se una persona sentisse parlare di Rigoletto, si incuriosisse e volesse andare a vederlo, non capirebbe niente seguendo una produzione così. Si vedono dei movimenti, immagini talvolta belle ma spesso stralunate, e allora ti chiedi se siano le allucinazioni di Rigoletto. Salvo solo la scena di Gilda sulla giostra, lì ho avvertito un momento poetico. L'unico però».
Spesso il rapporto fra la buca d'orchestra e il palcoscenico si fa rovente. Ricordiamo le sfuriate dei registi di Giovanna d'Arco, prima della Scala del 2015, inviperiti perché il direttore Riccardo Chailly aveva bocciato una serie di trovate sceniche che nulla c'entravano col dramma. Riccardo Muti ormai solo raramente dirige opere in forma scenica, e soprattutto quando di mezzo c'è l'amato Verdi. In un'intervista del 2019 a Classic Voice dichiarò che «tutti i grandi registi oggi su Verdi cadono. Verdi non sopporta l'intellettualismo.

Certamente il palcoscenico non dov'essere sovraccaricato di cose in contrasto con la musica. Zeffirelli lo sovraccaricava molto soprattutto negli ultimi tempi ma il Don Carlo era il trionfo di un fare artistico e artigianale che sta sparendo».

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