Perché è un dovere ricostruire i capolavori distrutti

Perché è un dovere ricostruire i capolavori distrutti

Accendo la tv e mi fermo su un canale dove alcune persone discutono sui gravissimi danni che il terremoto in Emilia ha arrecato al ricco patrimonio artistico e culturale.
Dopo il triste inventario delle distruzioni viene il momento di parlare della ricostruzione. Una funzionaria del Ministero dei beni e delle attività culturali (Mibac) spiega che ci sono difficoltà. Il suo ragionamento, se ben capisco, è il seguente: ricostruire un edificio lo destituisce della qualifica di «bene culturale». Si tratta di un edificio moderno, anche se riproduce perfettamente l’originale.
Una sua frase mi colpisce particolarmente: bene culturale, dice, è la materia di cui le opere sono fatte.
Ma che intendiamo con «originale»? O con «materia»? Si tratta di due concetti molto simili tra loro e molto difficili.
La materia, per esempio, coincide totalmente con il «materiale» di cui qualcosa è fatto?
Se un edificio di pietra crolla e quella pietra risulta inutilizzabile per la ricostruzione, e noi per ricostruire l’edificio ricaviamo il nuovo materiale dalla stessa cava da cui era stato tratto il materiale originale (dunque stessa composizione, stessa età geologica ecc.), il materiale è lo stesso, ma la materia no.
La materia, infatti, è qualcosa di individuale: non «pietra» o «legno» ma «quella pietra lì», «quel legno lì». Non solo: è la materia (che significa maternità, provenienza) a rendere individuale, ossia unica e irripetibile, la forma.
Tuttavia, se ci fermiamo qui ci accorgiamo immediatamente che qualcosa non quadra. Secondo questa prospettiva, solo il rudere, una volta successo il disastro, può essere depositario del valore culturale di un’opera. Ma una chiesa ridotta a rudere, una chiesa in cui non si possa più andare a pregare o a seguire la Messa, in che senso conserva il suo valore culturale?
Facciamo un altro esempio. Domandiamoci qual è la materia di un dipinto. In ogni mostra di quadri minimamente seria, i dipinti sono accompagnati da una targhetta che indica, dimensioni, tecnica, materiali, data di realizzazione, committenza. La materia del quadro è (perlomeno) la somma di tutte queste cose: non solo olio, tempera o acrilico, ma il «di che» si sta parlando, la sua storia, il tempo, la memoria che ad esso si lega.
Giovanni Testori arrivava a dire che anche le parole di un grande critico diventano «materia» di un’opera, perché restano attaccate all’opera, come quelle di Roberto Longhi su Caravaggio: sono dunque parte esse stesse del bene culturale. Se un quadro di Caravaggio andasse distrutto, sarebbe compito dei Beni culturali conservarne le immagini, le riproduzioni, la letteratura inerente, oppure no?
Senza contare la quantità di capolavori dell’antichità di cui ci è giunta memoria attraverso riproduzioni spesso maldestre e descrizioni di scrittori dell’epoca. E noi, sia pure a fatica, siamo entrato in contatto con un’origine di cui pure ci era stata negata la materia intesa come sasso, o colore.
E senza contare la quantità di capolavori - soprattutto chiese, pensiamo solo al Duomo di Milano - il cui valore non sta solo nell’assetto originario, ma anche nelle aggiunte che si sono accumulate nei secoli, per cui spesso una chiesa è tanto più bella quanto più porta in sé le tracce di una storia ricca. A dispetto di tutti i cultori della purezza originaria, è la storia, è la memoria la vera custode dell’origine, e quindi della materia nel senso più profondo e appropriato del termine.
Perché l'originario non è affatto il garante dell’origine. Se mai, è vero l’esatto contrario. E un Ministero dei beni culturali che curi l’originario e non l’origine è inutile e dannoso. Se un terremoto, che Dio non voglia, abbattesse la più grande opera di architettura di tutti i tempi - che so, la Cupola del Brunelleschi a Firenze - non sarebbe preciso dovere dell’umanità intera quello di ricostruirla? La memoria chiede la ricostruzione. Il campanile di San Marco e il ponte di Santa Trinita solo così possono raccontare la loro storia. E la materia sta soprattutto lì: nel racconto.


La memoria si nutre di ruderi quando non ha alternative: attenzione perciò alla retorica dei ruderi, perché un rudere è sempre un racconto monco. L’origine è nella vita. Se un terremoto lascia i suoi segni sulle opere umane, accettarlo come una fatalità sarebbe come un secondo terremoto.

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