La polemica Follie accademiche

In questi giorni migliaia di docenti universitari o di aspiranti tali sono stati impegnati nel compito di immettere in Rete decine di migliaia di dati relativi alle proprie pubblicazioni, che saranno valutate con il numero di citazioni ricevute. Su questa base sarà determinato il valore sotto il quale non si potrà accedere alla prova nazionale di idoneità a docente universitario e non si potrà essere commissario di concorso. È la famosa «bibliometria»", la determinazione della qualità di un articolo mediante il numero di citazioni, che suscita tante controversie e che ha terrorizzato gli studiosi di scienze umane, poiché i database che raccolgono le citazioni trascurano questi settori di ricerca a vantaggio delle scienze «dure», della medicina, dell'economia.
Per placare questi timori le scienze umane sono state sottratte alla quantificazione bibliometrica, valutando la qualità degli articoli secondo classifiche delle riviste in cui sono pubblicati, le quali hanno suscitato riserve a non finire, per i criteri arbitrari con cui sono costruite. Chi ha patrocinato tale divisione in due del sapere non si è reso conto di aver favorito due esiti gravi: la sanzione per legge della divisione tra cultura scientifica e cultura umanistica e l'aver chiuso la seconda in una riserva indiana che, come quelle americane, è destinata all'estinzione. È un processo che sarà accelerato dalla tendenza sempre più spinta a invadere il campo delle scienze umane con approcci quantitativi che soppiantano quelli tradizionali. Da tempo è una moda sostituire agli studi filologici classici dei testi letterari, analisi statistiche informatiche: calcolo di quante volte ricorre tale parola nella Divina Commedia, e così via. Ora c'è chi punta direttamente a ridurre la storia a statistica ed econometria.
Un esempio può illustrarlo. È noto che l'espulsione degli scienziati ebrei dalla Germania nazista produsse un depauperamento della scienza tedesca a favore di quella americana che assorbì migliaia di studiosi togliendo alla Germania la posizione leader nel campo scientifico e culturale. I tanti libri e articoli scritti sull'argomento sono ciarpame inutile, per i fautori dei metodi quantitativi, che hanno ricominciato tutto daccapo, esaminando l'impatto dell'espulsione degli ebrei dalle università tedesche con metodi statistici e bibliometrici. Sarebbe lungo citare le numerose «ricerche» in tale direzione. Menzioniamo soltanto, a titolo di esempio, quelle del tedesco Fabian Waldinger che, in una serie di articoli, ha prodotto due risultati principali. Il primo è che l'impatto delle leggi razziali è stato dannoso sulla qualità degli studenti di dottorato; il secondo è che l'impatto è stato modesto sulla qualità scientifica dei colleghi degli espulsi. Sono ovvietà evidenti a priori, perché se è chiaro che la sparizione di specialisti unici detentori della competenza in certi settori non poteva non colpire la formazione dei giovani ricercatori, non è strano che ricercatori già formati possano aver continuato a produrre nel loro ambito. Piuttosto, sarebbe stato interessante notare che questi ultimi, anche se sono stati in grado di galleggiare individualmente, non sono stati in grado di riparare il disastro per la scienza e la cultura tedesca. Del resto è sotto gli occhi di tutti che queste non hanno mai più riacquisito il ruolo egemone che avevano un tempo.
Ma queste osservazioni l'autore non poteva neppure provare a formularle perché la competenza in statistica ed econometria non basta a valutare questioni di contenuto, come il fatto che fosse un danno irreparabile la perdita dei migliori algebristi (in un periodo in cui questa disciplina aveva un ruolo cruciale nella fisica teorica) o degli unici competenti in teoria della turbolenza. Ma queste faccende di contenuto non interessano alla strana orda di barbari culturali che s'avanza; la quale, con incredibile supponenza, pretende di fare la storia con quattro grafici bibliometrici; il tutto per produrre un misto di banalità, di tesi revisioniste (il nazismo non avrebbe poi fatto tanto male alla scienza) e di ricette insensate (far lavorare insieme scienziati di primo piano sarebbe inutile).
Ed ecco il paradosso finale. Mentre gli scienziati di base delle scienze «dure» si ribellano sempre più duramente alla sostituzione dei giudizi di contenuto con un uso sgangherato della statistica e ne ottengono (all'estero) un ridimensionamento, questa pretende di colonizzare le scienze «molli», con i metodi quantitativi delle scienze «esatte», indipendentemente dalla qualità dei risultati.

Nel nostro Paese, dove il carattere di riserva indiana delle scienze umane è stato decretato per legge, lo svuotamento della riserva da parte di queste nuove forme di barbarie culturale potrebbe essere più rapido e facile.

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