Se vuoi capire le crisi, studia l'atlante

«Se volete conoscere le prossime mosse di Russia, Cina o Iran non leggete i giornali, consultate piuttosto una mappa», scrive Robert D. Kaplan in The Revenge of Geography: What the Map Tells Us About Coming Conflicts and the Battle Against Fate (Random House). Bene ha fatto il Foglio a pubblicarne stralci, ripresi dal Wall Street Journal. Anche perché questo analista di fama ha dato una buona chiave interpretativa sull'agguato omicida compiuto da al Qaida contro Chris Stevens: «L'errore di Washington è stato pensare che Tripoli potesse controllare Bengasi. Invece, la capitale della Cirenaica è storicamente legata all'Egitto e neanche un dittatore come Gheddafi riusciva a dominarla sino in fondo».
Insomma studiate la geografia! Spiega Revenge: «Se il cyberspazio e i mercati finanziari non conoscono confini, i Carpazi continuano a separare l'Europa centrale dai Balcani, creando così due modelli di sviluppo assai diversi, e l'Himalaya si trova ancora tra India e Cina, torreggiante memento di due civiltà incredibilmente diverse». E così l'orografia foggia le nazioni: la Russia tende a essere imperialista perché non ha barriere naturali a proteggerla. Il nord montagnoso e i grandi fiumi hanno sempre favorito regimi dittatoriali nella regione oggi irakena. I Balcani sono fonte di guai, non perché etnicamente cattivi ma perché disegnati così: pieni di montagne. «La geografia è buon senso, ma non è fato - precisa poi -. La scelta individuale opera nell'ambito di un dato contesto geografico e storico, che ha un impatto sulle decisioni, ma lascia aperte molte possibilità».
Nell'ottobre 2010, Kaplan ha illustrato concretamente questa tesi con Monsoon: the Indian Ocean and the future of American power (Random House). Descrivendo un suo viaggio, illustrava anche la politica attuale - in particolare l'egemonismo cinese - leggendo luoghi ed edifici disseminati lungo l'Oceano Indiano: dal Madagascar al sultanato di Oman, da Karachi a Mumbai, da Calcutta a Chittagong al Deccan, fino allo stretto di Malacca. E al centro di tutto c'era questo vento caldo, il monsone, che va dalla costa orientale africana all'Indonesia. È la costanza del vento che soffia sei mesi in un senso e sei mesi nell'altro che ha determinato un'autostrada naturale di collegamento, divenuta anche la base dopo il '500 per l'espansione coloniale portoghese, poi olandese e infine inglese.
Certo, questa impostazione non è originale: da Erodoto a Strabone, da Plinio a Montaigne, fino alla storia «materiale» degli Annales, il nesso tra condizioni climatico-geologiche e sviluppo delle civiltà è descritto in lungo e in largo. L'interesse per The Revenge of Geography nasce anche da quel che un analista ascoltato sulla politica estera americana ci rivela sui temi all'attenzione di Washington. Se si dà un'occhiata a libri storico-geografici con impostazione per certi versi analoga a quella di Kaplan ci si imbatte spesso in saggi sulla Roma imperiale. Tra gli ultimi usciti The rise of Rome: the making of the world's biggest empire del britannico Anthony Everitt (Random House) che parte dai romani agricoltori-piccoli proprietari-soldati come fondamenta dell'impero. Quello del piccolo proprietario perno della forza propulsiva americana è mito fondativo degli Usa: pensate ai western. Altri saggi approfondiscono il tema: da The legions of Rome di Stephen Dando-Collins (Thomas Dunne Books) fino a all'esigenza di abbattere il nemico Chartage must be destroyed di Richard Miles (Viking Adult, 2011). La storia di Roma diventa metafora per la riflessione d'Oltreoceano.
Altro tema di moda è l'Asia centrale con l'Afghanistan già protagonista del grande gioco tra russi e britannici che Rudyard Kipling racconta in Kim (1901). E appunto Great games, local rules, the new power context in Central Asia (Oxford University Press) si intitola il saggio di Alexander Cooley, studioso di relazioni internazionali. Per capire come in Afghanistan oggi il «gioco» riguardi non più russi e inglesi ma cinesi e americani, si legga The chinese question in Central Asia: domestic order, social change and the chinese factor di Marine Laruelle (Hurst&Co, 2011) per non parlare del connesso tema della Via della Seta trattato da Valerie Hansen in The Silk road. A new history (Oxford University Press). Da segnalare pure From the ruins of the empire: the intellectuals who remade Asia (Farrar, Straus and Giroux) di Pankaj Mishra, che offre un originale punto di vista «indiano» sulla storia dell'Asia centrale.
È assai utile che Kaplan e altri spieghino la geografia (e la storia) per leggere l'attualità, però in questa impostazione non manca un'ispirazione politica. Certe sottolineature del fattore «geografia» riflettono posizioni sulle scelte internazionali attente ora a spinte isolazioniste-protezioniste, ora a tendenze multipolariste, ora a quelle «realiste» alla Henry Kissinger.

Posizioni che tendendo a distanziarsi sia dall'idealismo internazionalista di certi democratici sia dal neoconservatorismo repubblicano, cioè da tutti quelli che chiedono agli Stati Uniti leadership più salda e orientata dall'obiettivo di far crescere la libertà su scala globale. Non a caso il saggio recente di un neocon come Robert Kagan si intitola The world that America made (Knopf): quasi una ribellione contro una «geografia» troppo statica.

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