Tattica, soldi, gruppetti. La grande "truffa" dell'arte contemporanea

Un divertente ritratto del maestro della Transavanguardia finisce con lo svelare altari e altarini del mondo di critici e collezionisti

Opera di Enzo Cucchi, artista della Transavanguardia
Opera di Enzo Cucchi, artista della Transavanguardia

Un libro che è un lapsus dalla prima all'ultima pagina, quindi un libro interessantissimo. È Vita sconnessa di Enzo Cucchi scritto da Carlos D'Ercole, pubblicato da Quodlibet e utile anche a chi di Cucchi non gliene può importare di meno. Basta essere anche solo vagamente interessati alla pittura odierna ed ecco che questa biografia tutta composta da interviste diventa indispensabile. Perché svela quanto il re sia nudo: un titolo alternativo potrebbe essere La grande truffa della transavanguardia , capitolo decisivo di un grosso volume sull'arte contemporanea come bidone. Il bello di questo svelamento è l'assoluta involontarietà, D'Ercole è un collezionista e molto evidentemente un innamorato di Cucchi, mai avrebbe voluto fare uno sgarbo al suo idolo. Eppure. Eppure più che della vita sconnessa dell'artista, dove l'aggettivo è relativo alla sua idiosincrasia per mail e computer, vi si scopre la sconnessione fra i pittori della transavanguardia con una qualsivoglia idea di bellezza, ma che dico di bellezza: di opera. La sconnessione è condivisa anzi sostenuta dai galleristi e dai collezionisti intervistati siccome nessuno di loro parla mai di quadri, nemmeno per sbaglio. Ci sono molte foto ma le tele vi appaiono raramente e sempre sullo sfondo e magari è meglio così vista la tecnica barcollante di Cucchi e compagni, però la cosa non può non apparire un lapsus, un errore rivelatore. Un libro d'arte che non parla di arte? E allora di che cosa parla Vita sconnessa ? Ma di soldi, diamine! Di soldi, di mercato, di tattiche e strategie per condizionarlo: di arte in senso stretto mai. C'è Emilio Mazzoli, gallerista modenese senza il quale la transavanguardia sarebbe forse rimasta un'elucubrazione di Achille Bonito Oliva, che polemizza a distanza con un concorrente svizzero: «Io ho più testa, più intuito di Bruno Bischofberger, solo che lui ha avuto il vantaggio competitivo di essere svizzero con le banche che gli facevano il 2 per cento. Io ero italiano, senza una lira, con le banche che mi chiedevano il 25 per cento». Dispiace dar ragione all'immodesto Mazzoli ma è vero, le cose stanno così: il mercato italiano dell'arte è per oggettive ragioni economiche un mercato di serie B, se non C, e chi in Italia si ostina a produrre o promuovere pittura ha un handicap irrecuperabile nei confronti dei colleghi tedeschi, inglesi, americani. Quindi è inutile dare la colpa ai galleristi furfanti, ai collezionisti ignoranti, ai critici conformisti, che pure esistono e sono tanti, se l'arte italiana non conta più nulla. Avrebbe più senso prendersela col fisco, grazie al quale nessuno in Italia ha più i soldi o il coraggio per acquisti importanti. Ma lasciamo perdere e torniamo all'arte o meglio all'assenza dell'arte che emerge da questo ritratto impietoso (ripeto: involontariamente impietoso) del sistema dell'arte. C'è Luigi Ontani che dà del ladro a Maurizio Cattelan, però con una certa eleganza, parlando di «cleptomania smodata». C'è Paul Maenz, gallerista tedesco, che definisce Nicola De Maria «confuso, pretenzioso». Prima di fare a D'Ercole la confessione delle confessioni: "Io non sono così interessato alla pittura. Non lo sono mai stato. Nel 1980 quello che mi affascinò di Cucchi, Chia e Clemente non fu tanto la loro tecnica pittorica ma la loro intelligenza artistica». Come dire: i transavanguardisti dipingevano quadracci furbi, poverino chi ci è cascato e beato chi ci ha guadagnato.

E adesso una confessione la faccio io: come amante dell'editoria auguro alla Quodlibet, una delle più raffinate case editrici della provincia italiana (la sede è a Macerata), di vendere molte copie di questo libro, come amante della pittura spero che ciò non accada siccome tutto ciò che ruota intorno al quadro ci fa una figura tremenda, come se tutto fosse in mano a loschi, maldicenti figuri sempre pronti a farsi le scarpe fra loro e a farle al prossimo. C'è il rischio che un collezionista legga Vita sconnessa e gli passi per sempre la voglia di comprar tele.

Tutto sembra mafia, quando Mazzoli spiega il motivo delle presenti difficoltà di Cucchi: «Lui ha litigato con i potenti e ora i potenti gliela fanno pagare». Ma che film è, il Padrino parte seconda? Quindi non esistono valori artistici oggettivi ma soltanto clan e cosche che decidono chi portare alle stelle e chi seppellire nel pilastro di cemento? Tutto sembra moda, quando Bernd Klüser, ennesimo gallerista tedesco di questo libro germanocentrico per la semplice ragione che la Germania in quanto grande potenza economica è anche (non tutti lo sanno) grande potenza artistica, parlando del transavanguardista marchigiano dice: «Lo Zeitgeist era con lui negli anni Ottanta, ora è contro di lui».

Ma certo, il vento è cambiato, oggi la cattiva pittura non si porta più. Infine di Cucchi sembra restare solo il ritrattino che gli fece tanti anni fa Goffredo Parise: «Cucchi ha la faccia da matto e la testa da vitello. E la sua pittura può ricordare quella dei pazzi di Verona».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica